Miti, stereotipi, paradossi
Etnia, stato, nazione
Alla radice di molti conflitti interni agli Stati moderni vi è l'idea stessa di Stato-nazione, usata abitualmente per descrivere Stati di cui si presume un'omogeneità nazionale. Nel suo articolo "Nation-Building or Nation-Destroying" (World Politics 24, 1972) W. Connor osserva che meno del 10% degli stati attuali è etnicamente omogeneo (percentuale salita di poco dopo il 1989) e che sono quindi una rarità gli Stati i cui confini coincidono con le patrie di gruppi culturali. Nessuno degli Stati dell'Europa occidentale di medie dimensioni sia di recente, sia di antica costituzione corrisponde a questo modello. Se l'obiettivo di una "statualità nazionale" è spesso irrealizzabile, va evidenziata l'ambiguità del concetto di Stato-nazione e la necessità di costruire forme di dialogo e adeguata rappresentanza democratica all'interno di entità eterogenee.
Nato, USA e UE contro la pulizia etnica
Vi sono paralleli e paradossi fra la repressione ai danni dei curdi in Turchia e degli albanesi in Kosovo. Ci ricorda Noam Chomsky: "Esiste, quanto meno, una divaricazione, se non una diretta contraddizione, tra le regole dell'ordinamento mondiale stabilite dalla Carta dell'Onu e i diritti specificati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. La Carta bandisce l'uso della forza in violazione della sovranità degli Stati, mentre la Dichiarazione garantisce i diritti degli individui contro gli Stati che li opprimono. L'argomento dell' 'intervento umanitario', usato per giustificare l'intervento Usa-Nato nel Kosovo, prende le mosse da questa divaricazione". Se è discutibile la legalità dell'intervento in Kosovo, non è meno discutibile la valutazione morale, in particolare nel caso della repressione turca (membro Nato) ai danni dei curdi: "In base a valutazioni molto prudenti, la repressione dei curdi in Turchia è di dimensioni paragonabili alle violenze perpetrate nel Kosovo. Il loro punto culminante risale ai primi anni '90. Un'indicazione della portata di questa repressione è data dall'esodo di oltre un milione di curdi, fuggiti dalle campagne per cercare scampo a Diyarbakir, capitale ufficiosa del Kurdistan, tra il 1990 e il 1994, quando l'esercito turco devastava i villaggi".
Le armi in campo - USA e UE per i diritti umani
Secondo il giornalista Jonathan Randal, inviato fra le popolazioni curde in Turchia: "Il 1994 fu l'anno della più feroce repressione nelle province curde della Turchia". E fu anche l'anno in cui la Turchia "era passata al primo posto tra i paesi importatori di forniture militari americane, divenendo così anche il primo paese importatore d'armi del mondo". Commenta Noam Chomsky: "Quando le associazioni di difesa dei diritti umani denunciarono l'uso da parte dei turchi di jet statunitensi per bombardare i villaggi, l'amministrazione Clinton trovò il modo di eludere le leggi che imponevano la sospensione di forniture belliche alla Turchia".
L'Italia non è da meno: nonostante la legge 185/90 (art. 1 comma 6) impedisca l'esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto armato o i cui governi siano responsabili di accertate violazioni dei diritti dell'uomo, secondo l'ultima relazione del Presidente del Consiglio in merito, le aziende italiane hanno esportato in Turchia nel 1997 armi per un valore di 86,5 miliardi di lire, facendo della Turchia il sesto paese di destinazione dell'export bellico italiano.
Perseguitati, guerriglieri, terroristi
La Turchia spiega le violenze perpetrate ai danni delle popolazioni curde adducendo la necessità di difendere il proprio paese dalla minaccia di guerriglieri terroristi. Esattamente come il governo della Federazione Jugoslavia in merito alla repressione nel Kosovo. Il movimento armato di autodifesa o di liberazione da parte della minoranza curda o albanese viene identificato dal governo centrale come gruppo terrorista, fornendo un ulteriore alibi per pratiche di tortura e persecuzione della popolazione civile. Secondo Amnesty international, nel 1998 "membri armati del PKK si sono resi responsabili di almeno dieci omicidi". Amnesty International denuncia anche che in Turchia, grazie alle procedure di dentenzione per le persone incarcerate in base alla legge antiterrorismo (che si applica anche a reati non violenti), nelle province in stato di emergenza, il fermo di polizia è di dieci giorni (in passato arrivava a trenta) e può prevedere un periodo di incommunicado dopo l'arresto di quattro giorni. Tali condizioni sono largamente riconosciute come propedeutiche alla tortura. Il Rapporto di AI del 1998 riferisce che "in molte parti del paese ci sono state diverse denunce ben documentate di tortura da parte di poliziotti e dei cosiddetti 'gendarmi' (soldati impiegati con compiti di polizia, soprattutto nelle zone rurali). Detenuti sia di sesso maschile sia femminile, compresi bambini e adolescenti, hanno spesso riferito episodi di violenza sessuale. Fra le vittime anche persone in prigione per reati comuni, così come persone arrestate in base alla legge antiterrorismo. Ci sono stati almeno sei prigionieri morti in seguito alla tortura".
Diritto d'asilo e pena di morte
16 febbraio 1999, giorno dell'imprigionamento di Ocalan in un carcere di massima sicurezza turco: in Italia la Camera dei Deputati chiede unanimemente che la Turchia lo processi con metodi democratici. Commenta Aluisi Tosolini: "Potevano pensarci prima: quando Ocalan era giunto in Italia (era novembre 1998) ed aveva presentato domanda di asilo politico. Che gli fosse cioè riconosciuto lo status di perseguitato politico da parte del potere politico turco che del popolo curdo sta facendo carne da macello". A Ocalan è stato negata dall'Italia sia la possibilità di asilo politico, sia quella di organizzare un processo per i presunti reati di cui sarebbe responsabile come capo del PKK, primo passo verso una conferenza internazionale. Tutti i paesi dell'UE interpellati si sono rifiutati di concedere ad Ocalan l'ingresso e la Germania, che ne avrebbe dovuto chiedere l'estradizione per un processo istruito a suo carico ha esplicitamente evitato di dar seguito al lavoro della sua magistratura. I legali di Ocalan hanno più volte ricordato, anche in quel periodo, come i tribunali turchi continuino ad infliggere condanne a morte.
Censure
Scrive Jonathan C.Randal ne "I curdi":"Negli anni Sessanta la Turchia protestò con il presidente egiziano Nasser per le trasmissioni in lingua curda mandate in onda da una radio del Cairo. La voce degli arabi, che allora veniva avidamente ascoltata in tutto il medio oriente. Ma Nasser tagliò corto chiedendo al diplomatico che esponeva la protesta turca: 'Nel vostro paese ci sono forse dei curdi?' Quando gli fu assicurato che ufficialmente non ce n'erano, Nasser replicò: 'E allora di cosa vi lamentate?'". Analoghe proteste sono state reiterate dal governo turco nei confronti di governi europei, ultimo in ordine di tempo quello belga, confrontato con lo stesso paradosso: perché andrebbero censurati i mezzi di informazione curdi, se ufficialmente la Turchia nega dignità e rappresentatività (e quindi potenziale ascolto) alla lingua, alla cultura e alla popolazione curda?
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