Donne, che ne pensate
di tutto questo?
di RITA VITTORI
Mentre scrivo imperversa la vicenda bellica del Kosovo. Stupore, paura, orrore per quanto sta accadendo penso siano sentimenti comuni, come la consapevolezza che il nostro intervento nella Nato fosse prevedibile, ma con la coscienza lacerata dallaltrettanta consapevolezza che questo non farà altro che inasprire le rappresaglie, i massacri e il dolore sia dei serbi che dei kosovari.
Essere contrari alla guerra come risoluzione di conflitti, dove motivazioni economiche, etniche, politiche e religiose si intrecciano in modo inestricabile oggi significa anche ri-pensare alleducazione che ricevono le nuove generazioni. Infatti, ascoltando gli stralci delle dichiarazioni della parte serba, si fa leva sullidentità serba come inscindibile dal territorio kosovaro; come se ci fosse una totale identificazione tra identità personale, storia e territorio.
Continuando la riflessione sulla "femminilizzazione" in ambito educativo, non possiamo che constatare che chi nel mondo continua a usare le armi, chi le produce, chi le vende in modo più o meno lecito, chi fa ricerca: sono tutti figli di un padre e di una madre, sono andati a scuola e quindi in qualche modo leducazione ha contribuito a crescere persone che oggi accettano e portano avanti una logica distruttiva.
Chi educa ha comunque un "potere" di influenzamento che si deve riconoscere, altrimenti tutto ciò che accade sembra frutto di altre condizioni su cui nessuno ha la percezione di incidere, attribuendo solo ad altri le responsabilità. In fondo, le istituzioni sono rese attive da uomini e donne, non esiste un "governo", un "sindacato", un"economia" disincarnati da chi li fa esistere.
In quanto donne ed educatrici, allora non possiamo non porci la domanda: in che modo nei nostri comportamenti educativi ci facciamo complici involontarie di strutture psicologiche e di pensiero che possono essere poi "usate" per spingersi sulla strada della guerra e del massacro?
Di fatto Milosevic ha dietro un consenso che gli ha permesso di gestire il potere in un certo modo e di intraprendere azioni agghiaccianti che vanno sotto leufemismo di "pulizia etnica".
Madre patria e identità
La prima riflessione è proprio sullidentità. In ambito educativo si è insistito molto sul concetto di identità: avere unidentità è stato sempre il fine delleducazione, sia in famiglia che a scuola. Si parla di crisi di identità, sia per quanto riguarda il genere (maschile/femminile), sia di ruoli (materno, paterno, sociali ecc.), sia nazionale, che culturale, che religiosa.
Allora occorre riflettere su come il concetto di identità faccia riferimento allessenza di un oggetto, un qualcosa di immutabile che al limite va scoperto o riscoperto, va mantenuto, recuperato, difeso da attacchi esterni. Tale identità è garantita dallesistenza di confini entro i quali le caratteristiche delloggetto identità devono mantenere una coerenza interna, pena la sua distruzione. Succede che tali confini vengano fissati in base alla cultura, alle tradizioni, alle abitudini di pensiero, al territorio in cui si abita.
La ricerca di unidentità implica due processi distinti: uno di separazione e uno di assimilazione.
Infatti ci si può differenziare solo grazie allesistenza di caratteristiche opposte: litaliano presuppone un non-italiano, un cristiano un non-cristiano, un giovane presuppone un anziano, ecc.; e ci si raggruppa per similitudini: un italiano si può ritenere tale perché esistono altri che possiedono la caratteristica dellitalianità, ecc.. Se tale identità viene ricercata verso una generalizzazione prevale loperazione di assimilazione, e non vengono considerate altre caratteristiche della personalità originali e particolari; se prevale loperazione della separazione si privilegiano gli elementi particolari.
In altre parole se "Mario" nella costruzione della sua identità ha privilegiato caratteristiche generali come lessere uomo o cattolico o italiano, europeo, serbo ecc. sarà più sensibile ai richiami che fanno riferimento allessere un buon cattolico o un italiano, serbo. Mentre se nella sua identità ha raggruppato molte più caratteristiche particolari, questi richiami lo troveranno più indifferente, perché si riconosce parzialmente in caratteristiche più generali.
Identità e pulizia etnica
Quando si procede collettivamente alla costruzione di unidentità, anche quella etnica, occorre che le caratteristiche che la separano dalle "alterità" (territorio, usi, religione, tradizioni, ecc.) si mantengano inalterate nel tempo e siano simili in tutti quelli che si riconoscono in quella determinata categoria etnica (italianità, europeità, curdità, serbità ecc.). Le caratteristiche particolari vanno poco per volta perdendo importanza per darne a poche caratteristiche in cui però possano riconoscersi un grande numero di individui: così si può costruire unidentità etnica forte.
Ogni etnia, popolo, nazione, per mantenere vivo il senso di appartenenza costruisce nel tempo dei simboli in cui si riconoscono gli individui e che rendono solide le relazioni di identificazione: cioè fanno sentire simili a sé tutti quelli che hanno in comune quel simbolo.
Ogni oggetto può diventare un simbolo della propria identità etnica: un territorio come luogo simbolico di momenti storici ritenuti rilevanti per la propria identità; unimmagine che ricorda punti salienti della propria religione; canti o inni nazionali; oggetti che richiamano alla potenza del proprio gruppo, ecc.
Se la propria identità si fonda in modo accentuato su questi tratti, tutto quanto mette in pericolo il possesso di questi simboli, viene vissuto come un pericolo reale e un attacco alla propria integrità psicologica: anche il linguaggio muta, perché si fa riferimento a un "noi italiani, noi cattolici, noi serbi, noi kosovari, ecc." che prima non compariva, perché lidentità non era sentita in pericolo.
Oltre a ciò nel concetto di identità etnica, se viene intesa come qualcosa che non muta nel tempo, sta come condizione coperta, ma immanente, il concetto di pulizia etnica. Per mantenere inalterata lidentità occorre continuamente separare, togliere, per purificare (cioè mantenere puro) e evitare il "meticciamento", vissuto come processo di intossicazione progressiva di una presunta purezza.
Per "pulire" bisogna separare il simile dal simile, trattenendo ciò che è ritenuto appartenente a questa supposta "identità", ritenuto ovviamente "migliore", per espellere tutto quello che non rientra nelle categorie logiche di appartenenza, vissute come "cattive", se non pericolose.
"Noi" diventa allora una categoria assoluta, ununità imprescindibile, separata nettamente dagli "altri", che vengono relegati in una posizione di assoluta inferiorità. Una forsennata sete di identità, un implacabile desiderio di unità, unito ad un incrollabile universalismo apre le porte ad efferatezze cruente, dove gli "altri" vengono a perdere irrimediabilmente le caratteristiche di umanità, che mantengono vivi i legami di identificazione.
Lumanità appartiene solo al "noi", lasciando gli altri vagare nelle categorie del "non umano": in questo modo si può compiere ogni crudeltà e misfatto senza sentire rimorsi o pentimenti. Così si riesce a sterminare popoli, in nome della propria identità.
Donne, che ne dite di tutto questo?
Se è vero che ancora il campo educativo è gestito dal "femminile", forse è anche tramite noi che certi valori si perpetuano: forse in chi legge o scrive, o forse anche in noi inconsapevolmente. In quali maniere le educatrici e gli educatori si fanno complici involontari di modalità di pensiero dogmatiche, poco attenti a chi è diverso da loro? In che modo trasmettiamo questo senso di possesso che fa diventare facili prede di discorsi demagogici e fa regredire a modalità paranoidi di parola, dove chiunque diventa criminale solo per aver avuto contatto con gli "stranieri"?
Dove sta invece la cultura che ci vede tutti ospiti della Pachamama, come direbbe un indio, di questa terra, che malgrado le ferite, continua a tollerarci sulla sua superficie, forse con amorevole pazienza o forse con doloroso silenzio? Dove sta la cultura della gratitudine per tutto ciò che ci viene offerto sotto forma di cibo, serenità, affetto? Dove sta la cultura dellempatia che ci rende la rabbia per chi soffre ingiustizie inaudite sotto gli occhi dei "turisti di guerra"? Dove sta la cultura della resistenza a tutto ciò che ottunde la capacità di sentirci parte dellumanità, sapendo però ben distinguere chi usa il potere per distruggere e chi lo usa per far vivere?
Forse le donne che sono coinvolte nel processo educativo ora dovrebbero scrollarsi di dosso tutte le false ansie che una certa società sta creando, bloccando ogni capacità di reagire e di influenzare secondo una volontà di pace e di vita.
Fino a quando genitori e insegnanti continueranno a tormentarsi, da soli o in gruppo, su come rendere più felice e autentico il "loro bambino", facendo di tutto perché abbia solo lui uninfanzia illusoriamente felice perché lontana da presunti problemi; fino a quando circonderemo i nostri di assillanti cure perché tutti i loro desideri vengano soddisfatti tramite il possesso di oggetti; fino a quando li considereremo cristalli delicati che ogni soffio può rompere, da tenere in scatole imbottite di cotone; fino a quando non torneremo a raccontare i dolori dei popoli e gli esempi di coraggio di persone in grado di pensare non solo al proprio benessere, ma di lottare per chi è privo del diritto di vivere, non riusciremo a costruire unumanità che piange sul dolore degli altri, ma cerca semplicemente di difendere il proprio benessere.
I bambini possiedono capacità empatiche fin da piccoli, perché il pianto di un compagno o di un adulto li commuove nel senso che li interroga dentro di sé. Siamo noi adulti spesso, con i nostri interventi pedagogici improntati a questa o quella teoria o corrente di pensiero a uccidere questi sentimenti profondamente umani. Spesso le nostre teorie e le nostre ansie rendono loro più difficile conquistare la consapevolezza di appartenere al genere umano e non solo ad una famiglia, etnia, popolo. Le nostre ansie li rendono più inermi di fronte alle ingiustizie e agli orrori che comunque esistono, ma che per ora, non ci toccano direttamente. Solo la nostra forza nel guardare con occhio pulito la realtà, solo la nostra capacità di opporsi a ingiustizie che toccano persone a noi lontane, solo la nostra azione di solidarietà quotidiana può trasmettere loro quella forza di ribellarsi di fronte a piccole ingiustizie subite da loro o da altri, a dare loro la forza di organizzare un dissenso che non sia la difesa di interessi particolaristici, ma di diritti inalienabili delle persone.
Forse noi donne abbiamo la possibilità di esercitare uninfluenza determinante sul futuro, proprio educando, ma non solo al proprio benessere: educando allattenzione di tutte le forme di vita che ci circondano, tra le quali la vita umana non è minore.
La bambina di Pompei
Poiché langoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché laria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dèi lorgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla dOlanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitto nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sullaltare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano dassai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
Primo Levi 20 novembre 1978
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