Dimenticarsi di Dio

 

di Rubem Alves

Molto prima di cominciare ad andare a scuola ho avuto le prime lezioni di teologia. Non mi ricordo esattamente quando ho ricevuto la prima lezione, ma so che non dovevo avere più di quattro anni, perché usavo un pigiama di flanella quella notte in cui mia madre mi ha insegnato a pregare al momento di coricarmi: "Adesso mi corico, per dormire. Custodiscimi, Dio, nel tuo amore. Se muoio, senza svegliarmi, ricevi la mia anima, oh Signore. Amen".
In questa preghiera ho imparato due verità teologiche. La prima, che la gente muore. La seconda, che dopo la morte c'è Dio. Dio è ciò che si incontra quando la vita finisce.
Naturalmente queste due idee non erano cose da bambino. Il bambino non pensa a Dio. In questo i bambini sono come i poeti. Alberto Caeiro dice:
"Pensare a Dio è disobbedire a Dio,
perché Dio ha voluto che non lo conoscessimo,
per questo egli non si è mostrato a noi".
Walt Whitman concorda con questo:

"Alla razza umana io dico:
non essere curiosa riguardo a Dio,
perché io sono curioso su tutte le cose
e non sono curioso riguardo a Dio".

Bambini e poeti non pensano a Dio perché sono in pace con Dio. Le persone pensano solo a ciò con cui non sono in pace. Una persona comincia a pensare al cuore quando il cuore batte in modo irregolare. Una persona comincia a pensare agli occhi quando non riesce a leggere il giornale. Se invece va tutto bene con il cuore e con gli occhi, le persone non pensano a loro. Caeiro, nella poesia in cui racconta del bambino Gesù che abita con lui, dice così:

"Andiamo tanto d'accordo/
sempre in compagnia in tutto/
che non pensiamo mai l'uno all'altro,/
ma viviamo uniti noi due/
con un accordo intimo/
come la mano destra e quella sinistra".

"Pensare è essere ammalati agli occhi", egli dice in un altro luogo. Chi pensa in Dio è perché è malato di Dio. Non pensare equivale a star bene. E siccome i bambini sono sempre in pace con Dio, essi non pensano in Lui.
I bambini non pensano a Dio perché per essi la vita è meravigliosa. Essi non soffrono di quella malattia che fa soffrire gli adulti e che si chiama "mancanza di senso per la vita". Gli adulti non si contentano di vivere semplicemente il quotidiano. Essi vogliono ragioni. Ignorano la poesia del mistico Angelus Silesios: "La rosa non ha nessun perché. Essa fiorisce perché fiorisce". Gli adulti esigono ragioni. Si domandano sulle ragioni della vita, sulla propria missione nel mondo, e altre cose simili. Il bambino non pone mai domande così. Giocare con l'acqua, giocare con la trottola, far volare l'aquilone, giocare a mamma e papà: queste piccole gioie bastano ai bambini. Sono ragioni sufficienti per vivere. Ai bambini basta poco. Per questo sono felici. Nietzsche diceva che egli amava gli uomini che non hanno necessità di guardare dietro le stelle per incontrare ragioni per vivere. Questo significa: egli amava i bambini. Il bambino non cerca ragioni dietro le stelle. Chi fa questo sono gli adulti.
I bambini vivono nel mondo dei sensi. Per loro il reale è ciò che entra per gli occhi, per le orecchie, per il naso, per la bocca, per la pelle. Essi sono i loro corpi, interamente& entità paradisiache.
Ma Dio non entra per nessuno di questi sensi. Dio nessuno l'ha mai visto. Ragione per cui i poemi sacri proibiscono espressamente che il suo nome sia pronunciato. Se Dio non si è concesso ai nostri sensi, è peccato mortale pensare e dire come lui sia. La parola, il nome, creano l'illusione che Dio sia un oggetto vicino ad altri oggetti. Anche solo il dire "egli" per riferirsi a Dio, crea l'illusione che sia maschile. Se dico che è "lei", sarebbe femminile. Ma non potrebbe essere un "esso", come il vento, il fuoco, l'acqua?

Da bambino, non avevo mai visto Dio, come pure non l'ho visto neanche diventato adulto. Ma gli adulti, spudorati, andarono dicendomi parole su Dio come se lo conoscessero. Le parole sono cose pericolose. Esse hanno un potere infinito di ingannare. Non solo di ingannare, ma anche di ammaliare. Wittgenstein, filosofo rigoroso, parlava della necessità di lottare contro il feticcio delle parole. Com'è che le parole ammaliano? È semplice. La strega ha detto "rospo" e il principe si è trasformato in rospo. Il feticcio è così: fa essere ciò che non è, e fa non essere ciò che è.
Dio è un mistero senza fine, mistero così grande che non ha nome che gli si possa applicare. I nomi sono gabbie. Quando diamo un nome a qualcosa o a qualche persona, essa rimane ingabbiata. Avevo un caro amico, Amilcar Herrera, che è rimasto incantato, è morto, e che sognava il giorno in cui allo svegliarsi avrebbe dimenticato il suo nome. Perché? Per poter essere quello che era. Perché quello che lui era era ingabbiato dal suo nome, nome che tutti pronunciavano. Quando il suo nome era pronunciato, egli cadeva nella trappola dei desideri degli altri, di quello che gli altri si aspettavano da lui. Infatti, pronunciare un nome è dire ciò che ci si aspetta da qualcuno. Il nome è un destino.
Infatti è questo che avviene: le persone dicono il nome sacro e l'uccello che vola diventa uccello in gabbia. Dio, mistero senza nome, quando gli è dato un nome diventa una cosa di cui le persone parlano come piace a loro.
È avvenuto proprio così con me. Io non sapevo nulla. Le persone parlarono e parlarono, e le loro parole andarono unendosi l'una all'altra, fino a che tutte unite, diventarono una cosa che nella loro mente era Dio. Adesso so che non era Dio: era un monticello di parole inventate. Ma in quel tempo, da bambino, io ho creduto in quello che mi veniva detto: rimasi vittima dell'incantesimo. Ho creduto perché pensavo che gli adulti sapessero più di me. C'è voluto molto tempo per riuscire a scoprire che essi non sapevano niente.
Ed ora viene una domanda: se le parole che gli adulti usavano per parlare di Dio non erano state prese da Dio, da dove allora essi le avevano prese? C'è solo un luogo: le hanno tirate fuori da se stessi. Questo meccanismo ha un nome: si chiama proiezione. Proiezione è quello che si vede al cinema. La gente guarda verso lo schermo, e pensa che le cose stanno avvenendo là. E perfino le nostre emozioni lo credono, e il corpo ride, soffre e piange con quello che sembra avvenire, come se fosse realtà. Ma è sufficiente un momento di riflessione, per rendersi conto che quello che sta là davanti sullo schermo è solo una proiezione di un'immagine che si trova dietro. Si tratta di uno scherzo della luce. Questo vale per tutto quello che vediamo. Fernado Pessoa dice proprio che noi vediamo quello che siamo. Il nostro mondo assomiglia a noi. È su questo che si basa la psicanalisi. Non ha importanza di cosa parla una persona, se degli alberi, cibi, case, o vestiti: tutte queste cose, insieme, formano il profilo del volto della persona che parla.
La stessa cosa avviene con quello che le persone dicono di Dio. Il Dio nel quale le persone credono e di cui parlano è formato con pezzi delle persone stesse. Il Dio parlato è un'immagine, nello specchio, di pezzi di noi stessi. Il discorso su Dio è il discorso su noi stessi. Il volto di Dio è il nostro stesso volto.
Dunque questo significa che Dio è solo un'illusione, simile all'illusione del cinema? Niente affatto. Questo vuol dire che per parlare di Dio, la prima cosa da fare è disimparare il Dio che ci è stato insegnato. È necessario dimenticare per poter vedere bene. È necessario tornare al luogo anteriore all'insegnamento. È necessario tornare ad essere bambino.

 

 

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