Approfondimenti
TUTTI ALLA SCUOLA DEL CHIAPAS
di Monica Ruffato
Il Chiapas - uno stato del Messico - in questi ultimi anni ha attirato su di sé i riflettori dei mass media. Perché è stato bersaglio di azioni crudeli come il massacro di Acteal (45 vittime inermi nella vigilia di Natale 1997). Perché il vescovo dom Samuel Ruiz di San Cristobal de las Casas ha alzato la sua voce profetica. Perché gli indios hanno dato vita a una rivoluzione - quella zapatista - negli anni '90 in cui le rivoluzioni sono considerate obsolete. Perché gli indios hanno fatto ricorso ad Internet. Ma è più di tutto questo. Ho visitato il Chiapas nel '93 e mi sono reso conto che nella Selva Lacandona avviene la gestazione di un'utopia per il terzo millennio. (Arnaldo De Vidi) |
Il Messico profondo
"La nostra guerra è stata ed è in favore della dignità perché essa sia rispettata.
Non c'è pace finché il disprezzo per ciò che è differente
continua ad essere l'unica relazione possibile.
Non c'è pace finché la menzogna è l'unica parola per coloro che nutrono odi,
e finché l'intolleranza e il cinismo sono le uniche bandiere". (Sotto-comandante Marcos)
"I popoli nativi non vogliono la guerra, ma un nuovo patto sociale
che tenga conto dei loro diritti&mai più un mondo senza i popoli nativi!"
Per il Messico, Bonfil (1990) parla di due identità nazionali o civilizzazioni, che egli definisce contrapponendo il "México imaginario" dal "México profundo". Il progetto occidentale del Messico immaginario, secondo Bonfil, è stato escludente e negatore della civilizzazione profonda mesoamericana, e non ha mai dato spazio alla convergenza delle due rappresentazioni. Fin dai tempi della conquista e dell'indipendenza dalla Spagna, la costruzione dello Stato "moderno", laico e liberale, ha imposto la discriminazione dell'indio, considerato "residuo" del passato. Lo Stato, volendo costruire la propria identità sul modello francese ed inglese, ha negato all'indio qualsiasi diritto alla specificità culturale eccetto, in tempi recenti, nella veste sminuita di manifestazione folcloristica, utile per richiamare i turisti. Era, quella indigena, un'identità da svalutare per assumere quella "immaginaria" che lo Stato andava costruendo e imponeva attraverso la scuola, la politica indigenista e l'emarginazione dalla vita politica nazionale.
"Il razzismo fu una costante nel rapporto tra lo Stato e i popoli indigeni, evidenziato dalla segregazione territoriale, dall'esodo forzato verso terre inospitali e improduttive, dall'emigrazione all'estero e dalla negazione della loro cultura" (Doc. dell'EZLN - Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale). Un razzismo che, come dice Sarte, "distrugge la cultura dell'altro senza dargli la nostra". Esso è provocato - secondo la lettura di Tresierra (1995) - da interessi economici: la presenza degli indigeni, con i modi "arcaici" di produzione e la loro cultura "sottosviluppata" è ritenuta di ostacolo alla realizzazione di uno Stato moderno al passo con le tecnologie e l'organizzazione del capitalismo internazionale. Nascono così le cosiddette "politiche indigeniste", che nel corso del tempo hanno assunto forme che vanno dalla repressione all'omologazione, attraverso l'imposizione di un modello unico di cittadino, negando la ricca varietà di culture. Tale "assimilazione" equivale a privare gli indigeni della possibilità di essere protagonisti della propria storia e di quella del proprio paese.
In tale contesto l'indio si trovò a non avere alternative tra l'assimilazione alla cultura dominante e la chiusura difensiva. Ma con l'insurrezione indigena zapatista assistiamo all'emergere di una nuova proposta: la richiesta di autonomia e di rapporti sociali che mettano fine al funzionamento verticale e discriminatorio del sistema. Il movimento zapatista, come afferma M. Olivera, sta diventando il simbolo della realtà nazionale, in quanto cresce e si sviluppa in un contesto di crisi generalizzata del paese a causa dell'espansione del neoliberismo e dell'incorporazione diseguale del Messico nel mercato mondiale attraverso il NAFTA, Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti e il Canada, stipulato il primo gennaio 1994. Il Trattato porta con sé gravi conseguenze per i popoli indigeni, soprattutto quelli "chiapaneche" abitanti in terre ricche di petrolio ed uranio, ma anche per tutta la popolazione messicana, che ritrova ancora una volta la sua storia gestita dai capitali stranieri.
La nuova proposta di autodeterminazione sociale, politica ed economica, mira ad una ricostruzione nazionale con la partecipazione reale e congiunta di tutti i soggetti; e suppone una rottura con qualsiasi forma di indigenismo paternalista, "etnicismo" o "localismo". La premessa fondamentale è che i popoli indigeni possano prendere nelle loro mani la gestione dei loro interessi, fino ad ora decisa dal potere e dall'autorità di altri. Essi, però, come dice il vescovo di San Cristobal de Las Casas, Dom Samuel Ruiz, "non cercano la loro parte, ma la partecipazione; si tratta di un'azione propositiva che interpella la società completa".
L'autonomia acquista il significato di una nuova modalità dei popoli indigeni per poter partecipare alla costituzione di una nuova nazione democratica e pluralista. Si tratta di una riformulazione del patto sociale che includa nel Paese gli indios nella loro qualità di popoli, superando l'attuale situazione di minoranza ed esclusione. Con questo essi non vogliono attentare contro lo Stato messicano, ma determinarsi liberamente dentro lo Stato messicano, col diritto collettivo alla diversità, occultata per tanto tempo. Si tratta di un processo lungo, in cui il Messico avrà la possibilità di costruire una società in cui nel conflitto tra gli interessi dei settori e dei popoli che la compongono non vengano penalizzati i più "deboli". Il conflitto dev'essere gestito, partendo dal presupposto della pari dignità sociale. Nel 1994 il governo si è mostrato disponibile, per la prima volta, al dialogo con i diretti interessati attraverso una serie di incontri in cui si è discusso sul tema dei "Diritti e Culture indigene". Gli incontri si conclusero con gli "Accordi di San Andrés" che stabiliscono, tra le altre cose, il riconoscimento nella Costituzione dei popoli indigeni come soggetti di diritti alla libera determinazione e all'autonomia, alla partecipazione e all'educazione integrale. Gli Accordi costituiscono una conquista fondamentale, il riconoscimento non solo dell'esistenza di culture differenti, ma dell'esigenza di una società che sia il risultato della partecipazione ad un progetto comune e non dell'esclusione. Si tratta di ammettere non solo la pluriculturalità della nazione, ma anche quella dello Stato.
Dobbiamo però denunciare gravi ingerenze nella vita quotidiana delle comunità indigene da parte di un sistema di forte militarizzazione nella zona del Chiapas, oltre alla creazione di gruppi paramilitari e "guardias blancas" e alla manipolazione propagandistica dell'informazione. Tale situazione ha generato la cosiddetta "guerra a bassa intensità", che dopo il tragico episodio della strage di Acteal, si sta avviando sempre più rapidamente ad una guerra aperta ad armi impari.
Mobilitazione internazionale per l'Umanità
"Tema della politica è la comunità e la reciprocità fra esseri differenti" (Hannah Arendt)
"Questo seme della speranza è per un mondo migliore per tutti.
Bisogna saperlo alimentare, bisogna riuscire a portarlo in tutte le nazioni,
paesi e continenti. La speranza di un mondo nuovo, dove ci sia posto per tutti
come esseri umani. Non come uomini e donne,
sfruttati o sfruttatori, non come ricchi o poveri, ma nel rispetto
della convivenza delle culture nel mondo". (Comandante Zebedeo)
Considerando che la globalizzazione da un lato produce miseria e distruzione, dall'altro crea inedite possibilità di comunicazione e incontro, gli indios della Selva Lacandona resistono al neoliberismo proponendo al mondo intero modalità concrete di convivenza. In questo senso Giulio Girardi dice che "l'insurrezione indigena zapatista è il detonatore di una mobilitazione internazionale per l'Umanità e contro il neoliberismo".
Si tratta innanzitutto di prendere coscienza che la forma dello Stato-nazione, caratterizzata da una omogeneità culturale, linguistica e razziale che lo definisce, distinguendolo da altri Stati/nazioni, non è l'unica forma possibile ed immutabile data, e che invece è possibile avere forme-Stato diverse, nelle quali sia dato spazio ad una pluralità di espressione dei percorsi culturali umani.
Si tratta di passare dalla negazione della differenza al riconoscimento ed accettazione dell'esistenza della differenza, da dove ricostruirsi, creando la possibilità di un'azione congiunta: un'esperienza sulla quale anche il Vecchio Mondo è bene rifletta. In contesti nazionali che si trovano ad affrontare un destino sempre più globale e interdipendente, il rischio sembra essere quello della omologazione o della frammentazione. Si tratta allora, come dice L. Cardozo y Aragon, di riflettere sull'auspicio ad una coesistenza di culture o ad una loro fusione nella pluralità.
"La selva è lo scenario di una lotta per la vita di intensità poco comune. Nella selva non c'è né inverno né estate, né autunno né primavera; il suo plasma umido e carico di succo nutritivo può essere visto come forno genitore e come una tomba". Così lo scrittore messicano F. Benitez descrisse la terra dei maya, dove i discendenti di quella cultura vivono attualmente, nella Selva Lacandona, in condizioni tanto diverse come lo stesso mosaico culturale, sociale, economico e religioso che conformano.
Gli indigeni hanno radici comuni in una struttura millenaria, mille volte rinata dalle proprie ceneri: il "pueblo", la comunità, sintesi tra esperienze preispaniche e i liberi municipi di fonte europea. Il pueblo indio con complessi meccanismi interni di livellamento della ricchezza, strutture civiche e religiose, ed il sistema di rotazione delle cariche è la leva impegnata dal movimento indigeno per sollevare il macigno che grava sui popoli del Chiapas.
La comunità - unica vera risorsa dei popoli indigeni - (e la cultura che essa esprime) non si ripete intatta dal passato, ma è costruita e sèguita a costruirsi nel vorticoso scontro con la realtà di tutti i giorni. Nella comunità gli indigeni imparano che la partecipazione implica l'apprendimento della capacità di decisione autonoma, ma soprattutto imparano che la vita si genera in un contesto relazionale in cui tutti hanno diritto a un loro spazio.
La comunità è l'espressione più concreta e generalizzata dei popoli indigeni. In essa hanno luogo le più diverse azioni proprie delle necessità umane e della specificità della loro cultura. È in essa che gli indigeni hanno autonomia. In essa scelgono le proprie autorità conformemente ai procedimenti propri e senza l'intervento di partiti politici, con una forma di democrazia diretta dove, come essi dicono, "si comanda obbedendo". L'assemblea, organo collettivo, è la massima autorità, anche in faccende non agrarie, dove il singolo trova il suo spazio come partecipante attivo. I compiti e lavori di un "comunero" hanno senso nel contesto della comunità e per il fine di essa. In questo modo la comunità è lo spazio dove si crea e ricrea la cultura.
Educazione multiculturale vs imposizione culturale
Il ritorno a politiche di valorizzazione della comunità locale
è la scommessa che i diversi soggetti sociali possono ritrovare
il gusto dell'avventura comune. (PL. Branca)
Nelle società indigene l'identità assunta come propria, che sia esplicita o meno, che sia consapevole o meno, è contestuale, situazionale e storica; di fatto non ha bisogno di essere "imparata in un luogo separato", alieno dal contesto in cui si vive. Lo Stato, invece, per imporsi ha dovuto agire ricorrendo anche alla forza e concentrare le proprie energie nella costruzione di una rete capillare di scuole dotate di uno stesso programma. Il programma di assimilazione, quindi di distruzione delle culture locali è partito proprio dalla scuola dove si impara la cultura di Stato.
La prima cosa che colpisce visitando le comunità indigene, specialmente quelle situate nella zona di Los Altos in Chiapas, è lo stato di calamità della rete di scuole. Le infrastrutture scolastiche sono insufficienti. Ci sono pochissime scuole bilingue e molte di esse incomplete, vi è una forte carenza di materiale pedagogico e di docenti preparati. Spesso chi insegna nelle comunità indigene sono maestri diplomati da poco, mandati in quei luoghi in attesa di una posizione migliore.
I metodi di insegnamento e i contenuti imparati a memoria, spesso senza comprensione, si discostano dalla modalità di trasmissione culturale indigena che avviene soprattutto per imitazione. Gli scolari inoltre vengono subito indotti a competere tra loro e ad essere valutati individualmente, scontrandosi con la loro realtà comunitaria dove le attività avvengono invece in modo collaborativo. Anche gli orari di lezione e il calendario scolastico si scontrano con la nozione del tempo delle popolazioni indigene, legato al ciclo delle stagioni e dei ritmi della produzione agricola. E l'atteggiamento di disprezzo che sovente il docente dimostra a questi allievi e verso la loro cultura, incute in loro un senso di inferiorità personale e collettiva. La scolarizzazione per le popolazioni indigene diventa perciò un momento di acculturazione o imposizione culturale.
Infine si deve constatare che tale processo si rivela di scarsa utilità, in quanto una persona indigena scolarizzata non si trova nella condizione di mettere a frutto le conoscenze acquisite: se resta nella comunità si ritrova con un bagaglio di conoscenze lontane dalla sua realtà quotidiana, se decide di trasferirsi in città, molto difficilmente potrà essere considerata per il suo titolo di studio. Le professioni per le persone indigene sono ridotte (operaio, domestica, venditore ambulante di artigianato) in quanto il razzismo imperante fa sì che, a parità di studi, la preferenza venga data a persone non indigene. Quindi, sebbene l'ideologia presenti la scuola come momento di promozione sociale, oppure come l'unico modo per "uscire dall'arretratezza", essa è trasmissione culturale di basso livello, non solo in quanto la maggior parte degli alunni non riesce a terminare gli studi, ma soprattutto perché è difficile per loro entrare in una scuola superiore e aver accesso poi a lavori qualificati.
Fino ad oggi la scuola ha permesso a pochi di diventare maestri, con un costo molto alto, non solo in termini economici, ma anche di sradicamento personale e culturale. Per la maggioranza la scolarizzazione continua a significare l'interiorizzazione della loro supposta inferiorità culturale, la "castellanizzazione" (= spagnolizzazione) forzata, senza controparte in termini di integrazione vera e ugualitaria nel mondo meticcio.
Alcuni giovani stanno per apportare una riflessione nuova. Hanno la consapevolezza ormai acquisita della "diversità" culturale al cui interno sono nati e cresciuti, ma la loro è diversità non solo nei confronti del modello nazionale ma anche degli altri gruppi indigeni. La prospettiva su cui si sta riflettendo per un reale cambiamento della scolarizzazione in Chiapas è dunque quella di una "educazione multiculturale", dove vi sia la possibilità dell'esistenza di una molteplicità di identità. Si tratta infatti di pensare, oltre la salvaguardia delle differenze, alla possibilità dell'esistenza della differenza.
Progetto educativo "Semillita del Sol"
"Dobbiamo pensare la scuola congiuntamente,
altrimenti essa funzionerà secondo il modello che già conosciamo.
L'idea è che qui dovremo lavorare in modo diverso,
e questo richiede del tempo".(Testimonianza dei "promotori di educazione")
La situazione in campo educativo delle regioni indigene è la più critica di tutto il Messico. Di fatto, negli ultimi dati ufficiali esse appaiono invariabilmente negli ultimi posti. Più della metà della popolazione non ha accesso alla parola scritta, e la scolarità media non raggiunge il terzo grado della primaria. Inoltre le comunità indigene esprimono costantemente una serie di critiche fondamentali al sistema scolastico. Segnalano l'assenteismo e l'alcolismo dei professori, la loro intromissione in faccende interne della comunità, la loro mancanza di rispetto per le lingue e le culture locali, l'uso di castighi corporali e le quote che chiedono nonostante l'educazione sia gratuita.
La situazione si è aggravata con la guerra: moltissime scuole sono state abbandonate o funzionano in maniera irregolare; i pattugliamenti militari restringono l'accesso ai pochi servizi che esistono; i bambini hanno paura.
In queste condizioni le comunità presero l'iniziativa di formare la loro propria scuola, come parte del processo di costruzione dell'autonomia. Rifiutando le offerte educative del governo, le comunità si propongono di mostrare che si può costruire un'educazione diversa, rilevante, di qualità e aperta a tutti, nelle "scuole di resistenza". È a partire da questa determinazione che nasce il progetto educativo "Semillita del Sol".
Fu chiaro fin dall'inizio che non si doveva riprodurre gli errori del sistema ufficiale, come l'imposizione di contenuti irrilevanti, la forma meccanica di insegnare, le relazioni di potere tradizionale. L'idea è di gettare le basi di un processo educativo integrale, strettamente relazionato con la realtà regionale e costruito congiuntamente tra tutti coloro che partecipano - comunità, madri, padri, bambini, promotori, maestri, assessori.
Dal primo momento fu chiaro che gli obiettivi di largo raggio erano:
Prime valutazioni
(dalle testimonianze dei "promotori di educazione")
"Stiamo costruendo la scuola tutti insieme e l'apprendere è responsabilità di tutti noi".
La colonna vertebrale del "progetto" è il processo di riflessione permanente su: recupero e appropriazione dei saperi di diversa origine, generazione di nuovi saperi, forme di relazione, significato e valorizzazione dei metodi, contenuti, propositi e valutazioni. Inoltre si discute apertamente intorno al ruolo che può giocare la scuola come spazio di convivenza comunitaria e di nuove forme relazionali e nuove pratiche quotidiane.
Le prime valutazioni rivelarono la necessità che il progetto si costruisca poco a poco, con flessibilità, coerenza e significato. Le conoscenze di tutti i partecipanti e lo scambio di esperienze lo arricchiscono. La socializzazione tra le esperienze di vita e di apprendimento, dimostrano che nessuna esperienza previa dà risposta completa alla domanda delle comunità.
Bisogna essere sempre disposti ad apprendere nel cammino, a rifiutare i concetti previ o riprogettarli e ad andare costruendo forme inedite di lavoro.
Per poter avanzare in questo processo di riflessione, fu necessario valutare l'azione. Ripensare il modello di scuola vuol dire anche scegliere i contenuti dei programmi, cercare modi di integrarli ad un lavoro educativo aperto a molteplici saperi, organizzare gruppi, disegnare orari flessibili e coordinare i compiti operativi. Insomma "discutemmo collettivamente il significato di differenti proposte e opzioni, fino ad arrivare a tentativi di accordi".
Le idee ottennero senso nella pratica (ri-significare le parole nell'azione è creare senso) e in non pochi casi si riprogettarono e si arricchirono alla luce delle esperienze di formazione e della partecipazione delle comunità e dei promotori. Si deve però riconoscere la differenza tra enunciare una difficoltà e la possibilità concreta di risolverla: non basta cambiare il discorso bisogna modificare l'azione.
Ci fu la proposta di rompere con un piano definitivo di "materie". L'interdisciplinarietà ci portò a progettare l'integrazione, modalità che si avvicina alle forme non-scolari di appropriamento e generazione di conoscenze. Ci fu la decisione di lavorare sia in spagnolo che nelle lingue indigene, di integrare saperi locali e scolari negli spazi di Storie (al plurale), Matematiche, Vita e Ambiente. Si progettarono due spazi di integrazione: uno intorno alle domande di Terra, Lavoro, Tetto, Alimentazione, Salute, Educazione, Giustizia, Democrazia e Uguaglianza, l'altro punto di integrazione intorno all'adattamento del lavoro per bambini della primaria.
Alcuni fondamenti teorici
(Sono il risultato di mesi e mesi di lavoro collettivo da parte dei promotori di educazione nel corso di formazione).
COSTRUZIONI DEL SAPERE - Si apprende solo quello che risulta culturalmente accessibile. Influisce nell'apprendimento la maniera di pianificare la conoscenza e il linguaggio che usiamo, le forme di valutare e recuperare la conoscenza previa e la percezione e interpretazione propria della conoscenza aliena. Per favorire l'apprendimento e la costruzione della conoscenza sono dimensioni fondamentali le emozioni, il rispetto alle forme di espressione di ognuno e la ricerca di contatti più chiari tra tutti.
In questo progetto la definizione di contenuti propri di apprendimento si fa a partire da tre versanti: la rivalutazione dei saperi locali, la valutazione di conoscenze che provengono da fuori e la riflessione riguardante "il desiderato, l'utile e il necessario".
È indispensabile rivalutare i saperi locali se vogliamo frenare la tendenza dominante di negazione della loro esistenza e di disprezzo dei propri raggiungimenti. I saperi sono prodotti collettivi e domandare è la porta di entrata per qualsiasi processo di apprendimento che prenda in considerazione le persone. Dal sapere esterno, che può essere semplicemente il sapere di un'altra località (però inclusi quei saperi che uniscono molte tradizioni e che ha prospettive più globali), si deve valutare la sua pertinenza e la sua vicinanza e le possibilità della sua appropriazione. In questo cammino, si costruiscono i ponti tra i saperi di differenti ambiti e origini, e ciò genera nuove conoscenze.
CAMMINI AL POSTO DELLA METODOLOGIA - La metodologia - nel senso ampio della ricerca di cammini - per favorire la costruzione di saperi, non dovrebbe ridursi ad un insieme di tecniche, né riguardare solamente l'aspetto razionale. È infatti parte centrale la sensibilità di ognuno di fronte all'altro. La possibilità di un avvicinamento reciproco si dà nei momenti di incontro, di dialogo e ascolto dell'altro.
Una metodologia sensibile potrà costruire senso e trasformarsi in un processo che è sempre reciproco, dove il sapere si genera nell'interazione.
IL POTERE - Uno dei punti centrali del processo di costruzione di una nuova scuola è la riflessione intorno al potere che il sapere conferisce. Prendere coscienza dei meccanismi di esercizio del potere è il primo passo per trasformare le relazioni di potere. Lungo la prima tappa di lavoro si cercarono sia i meccanismi adeguati per orizzontalizzare le relazioni di potere-sapere all'interno del collettivo, sia gli strumenti per trasformarle.
Partimmo, primo livello, dall'idea di porre l'educazione al servizio della comunità. La scuola che desideriamo non può essere una istituzione aliena alla comunità. Iniziammo perciò un processo nel quale la comunità partecipa nella costruzione della scuola, nelle decisioni relative al processo formativo (contenuti, forme di insegnamento, questioni operative, orari, calendari, risorse) e al senso stesso della scuola come spazio di generazione di saperi collettivi.
Un secondo livello ha a che vedere con il ruolo che debbono giocare i detentori del sapere (coloro che sono ritenuti tali, cioè i maestri, assessori, promotori, autorità). Partimmo dall'idea che la loro funzione centrale è facilitare la generazione di saperi in collettivo, cioè favorire la discussione e il rafforzamento dello spazio dove la riflessione possa svolgersi.
Un terzo livello ha a che vedere con il ruolo che il promotore dell'educazione deve giocare all'interno della comunità alla quale appartiene e nella quale sviluppa il suo lavoro. La definizione di questo ruolo del promotore è in un processo di "discussione" ed è una delle discussioni centrali di lungo termine.
Considerazioni sull'esperienza praticata
Dentro la scuola incontrammo tutta una gamma di colori, un k'intum in tojolabal, un arcobaleno di idee, vestiti, saperi, lingue, regioni, tutti però uniti per uno stesso interesse: l'educazione del proprio popolo.
Nei laboratori convivono "tzeitaleros", "tojalabaleros", "tzotziles" e "mestizos". L'interscambio quotidiano delle forme di organizzare, risolvere i problemi, nominare le cose, ha reso possibile ai promotori di educazione di riconoscersi, notare per confronto le proprie differenze e arricchire il loro bagaglio di conoscenze con le esperienze dei propri compagni.
Quasi tutti parlano bene lo spagnolo, molti parlano fino a cinque lingue indigene, ma all'inizio molti di loro non volevano parlare la propria lingua (nella scuola ufficiale era proibito farlo, a costo addirittura di essere multati). Quando cominciarono a farlo, si iniziò a comparare le varie maniere di nominare le cose e le diverse espressioni dei propri luoghi d'origine.
La diversità implica necessariamente un'enorme varietà di modi di intendere il mondo e l'educazione; ciò ha arricchito il lavoro nei gruppi. La costante traduzione tra lingue è un esercizio di vita che permette di parlare di cose in comune. Ad esempio in una classe si è chiesto come si diceva "dividere" nella propria lingua. "Dipende, fu la risposta; dipende da cosa si divide, se è in parti uguali, se è denaro o terreno; dipende anche da chi divide".
Un'altra dimensione importante del lavoro è, una volta espresse le varie visioni, convalidarle. Ad esempio nelle classe di Storie, parlando dell'origine dell'uomo si arrivò alla conclusione che esistono diverse teorie - come l'evoluzione dell'uomo a partire dalla scimmia, la creazione dell'uomo da un dio, o la versione maya che l'uomo fu fatto di mais. Nella classe di Ambiente emerse la domanda su chi ha vita e chi non ce l'ha. Ci fu una discussione molto lunga e complessa, senza una risposta unica, che provocò una riflessione collettiva su come intendiamo le cose in maniera diversa e il rispetto che ognuna merita.
Di fronte alle tensioni inevitabili nella convivenza di persone con diverse forme di vita e valori, apprendemmo che è importante che tutti si accettino con le proprie differenze, così si crea un mondo che contiene altri mondi. Questa è anche l'intuizione del sotto-comandante Marcos: "La nostra guerra è per fare che la verità di coloro che sono differenti sia ascoltata e capita, perché tutti i mondi abbiano diritto al loro posto nel mondo".