(Titolo originale "Ecology, Justice and the End of Development", Society for International Development, vol. 40, n. 2, 1997)
Per gli ambientalisti il 1997 è l'anno degli anniversari. Sono trascorsi dieci anni da quando la Commissione Mondiale sull'Ambiente e lo Sviluppo, presieduta da Gro Harlem Brundtland ha proposto la sua famosa formula su come salvaguardare la natura e continuare lo sviluppo: lo sviluppo sostenibile è sviluppo "che risponde ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" (Commissione Mondiale sull'Ambiente e lo Sviluppo, 1987, capitolo 8). Dopo le decadi d'oro post-belliche, con la loro esplosione della crescita economica, l'amara constatazione che lo sviluppo convenzionale, come un fuoco, brucia risorse essenziali per le generazioni a venire, riceveva una benedizione ufficiale. Improvvisamente il futuro aveva cambiato di colore: non più il tempo luminoso in cui raccogliere i frutti dello sviluppo; al suo posto un potenziale periodo buio in cui sarebbe fatalmente arrivato il momento di pagare i conti della festa. Di fronte a questo scenario, la Commissione Brundtland invitava i governi a prendere sistematicamente in considerazione la dimensione temporale nel formulare le proprie decisioni.
Invocava giustizia fra le generazioni, un concetto che si era fatto gradualmente strada a partire dalla Conferenza di Stoccolma del 1972. Questo concetto, la pietra angolare di un nuovo quadro etico, estendeva il principio di equità fra l'umanità lungo l'asse del tempo.
Tuttavia, sottolineare la dimensione temporale della giustizia, ne sminuisce la dimensione dello spazio sociale. I limiti imposti dall'attuale generazione alle generazioni future, appaiono più importanti di limiti imposti dai gruppi dominanti ai gruppi con meno potere, nell'ambito della stessa generazione.
"Bisogni" e "generazioni" sono termini socialmente neutri; non richiamano distinzioni verticali. Tuttavia, questa distinzioni sono cruciali rispetto all'equità intragenerazionale. I bisogni di chi e quali bisogni vanno soddisfatti? In un mondo diviso, queste sono questioni essenziali che determinano se lo sviluppo sostenibile sarà parte fondante di un progetto democratico o finirà per radicalizzare la polarizzazione sociale. Si tratta dell'acqua, della terra, della sicurezza economica o di viaggi aerei e depositi bancari? Sopravvivenza o lusso? I bisogni in questione sono quelli della classe dei consumatori globali o quelli dell'enorme schiera degli "have-nots" (i non aventi)? La Commissione Brundtland ha lasciato in sospeso queste domande. Questo ha facilitato l'accoglienza dello "sviluppo sostenibile" nei circoli del privilegio e del potere, ma ha offuscato il fatto che non ci sarà sostenibilità alcuna senza imporre limiti alla ricchezza. In altre parole: che una maggiore equità intragenerazionale è un prerequisito per ottenere equità intergenerazionale.
Neppure l'altro anniversario getterà maggiore luce sul tema della giustizia. Perlomeno non in termini che abbiano senso da un punto di vista ambientalista. Questo perché, cinque anni fa, la Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro è stata altrettanto ambigua, quanto all'equità all'interno della stessa generazione, della Commissione Brundtland. È vero, la conferenza probabilmente non avrebbe neppure avuto luogo se le richieste dei paesi del Sud di affrontare le ineguaglianze non fossero state prese in considerazione. Ma le preoccupazioni riguardo all'equità vennero filtrate dal linguaggio dello "sviluppo", evitando ancora una volta di rispondere alle domande: sviluppo di chi e sviluppo di cosa? Infatti la Dichiarazione di Rio reitera innanzitutto il "diritto allo sviluppo" prima di affermare il bisogno di protezione ambientale.
Nonostante durante la conferenza i governi del Sud abbiano risposto alle richieste di protezione ambientale con l'esigenza di un migliore equilibrio nelle relazioni Nord-Sud, hanno poi stretto una "non sacra" alleanza con il Nord magnificando lo sviluppo. Sia il Sud sia il Nord hanno continuato a percepire sé stessi come vettori di un singolo binario, sperando che la salvezza venga dalla crescita economica, obbligati ad investire risorse sempre più scarse a tal fine. Mentre il Sud si divertiva a imitare, il Nord indulgeva nel suo carattere competitivo. In questo modo il sovra-sviluppo non è mai stato veramente affrontato ed il fattore che produca sia povertà, sia pericolo a livello della biosfera non è neppure stato discusso. Il fatto che la richiesta di giustizia è parte della definizione di sviluppo, ha permesso a tutti di evitare cambiamenti significativi e di dedicarsi ancora una volta agli affari, come gli anni seguenti hanno mostrato.
L'aspettativa che la giustizia arriverà con lo sviluppo è profondamente radicata nelle teorie post-belliche. Certo, è un'idea che trova le sue radici nell'Illuminismo europeo, quando i popoli del pianeta vennero riconosciuti come umanità, unificati da una stessa dignità e destinati ad avanzare verso il regno della ragione e del progresso. Ma è stato solo dopo la guerra che ha preso piede una percezione del mondo come di un luogo dove l'eguaglianza poteva essere pianificata e realizzata in qualche decina d'anni. Per esempio, le Nazioni Unite annunciarono solennemente, nel preambolo della Carta dell'ONU, la loro determinazione "a promuovere il progresso sociale e migliori standard di vita con più ampia libertà... utilizzando i meccanismi internazionali per la promozione dell'avanzamento economico e sociale di tutti i popoli".
Politicamente, due tendenze storiche vennero a convergere creando un consenso globale attorno a quest'idea. Da un lato, gli Stati Uniti, dopo i terrori della guerra, ricercavano un nuovo ordine mondiale che garantisse la pace. Dal loro punto di vista, lo scoppio della guerra in Europa era il risultato dell'instabilità economica seguita alla Grande Depressione. Memori del successo delle proprie politiche (New Deal) in risposta alla crisi economica, quando Keynes aveva suggerito che la stabilità dell'economia poteva essere raggiunta attraverso l'intervento dello Stato, proiettarono il bisogno di crescita economica - sostenuta dal settore pubblico - a livello planetario. Il programma di assistenza tecnica "Point Four", secondo quanto scritto dal presidente Truman nelle sue "Memoirs" (1956, pag. 232) "mirava a mettere in grado milioni di persone nelle aree sottosviluppate di sollevarsi dal livello del colonialismo e di raggiungere la capacità di provvedere a sé stessi e di creare prosperità". Lo sviluppo economico doveva essere lanciato a livello globale in modo da gettare le basi della pace. D'altra parte, con la definitiva caduta dell'Inghilterra e della Francia in quanto potenze coloniali, prendeva piede la decolonizzazione ed emergevano nuovi Stati-nazioni.
Una volta raggiunta l'indipendenza, la maggior parte di questi stati videro la propria ragione d'esistere nello sviluppo economico. Dopo lunghi periodi di umiliazione volevano ottenere rispetto e si affrettarono per unirsi al mondo moderno. Erano perfino pronti a mettere sottosopra le proprie società per rifarle ad immagine dell'occidente. Aumentare i salari ed i guadagni dalle esportazioni sembrò essere il logico cammino per ottenere una posizione sullo stesso piano dei paesi industrializzati.
Il risultato di queste due tendenze storiche fu che emerse un consenso globale riguardo allo "sviluppo" quale suprema aspirazione che univa Nord e Sud. A livello internazionale, la giustizia venne assimilata al colmare il divario con i ricchi.
Lo storico britannico Eric Hobsbawm afferma che il nostro secolo è già terminato. Il breve Ventesimo Secolo abbraccia, a suo parere, dal 1914 al 1991, dalla caduta della civilizzazione del XIX secolo al collasso dell'Unione Sovietica. Mentre nei decenni seguenti alla Seconda Guerra Mondiale, in relazione alla violenza passata e alla minaccia comunista, gli stati nazionali si sono rafforzati garantendo benessere ai propri cittadini, questo rapporto fra territorio, generazione di ricchezza e governo ha cominciato a disintegrarsi negli anni '80 e '90. Hobsbawm lo paragona a una frana. "L'affermarsi dell'economia transnazionale su scala mondiale mina un'istituzione fondamentale e, a partire dal 1945, virtualmente universale: lo stato nazionale, a base territoriale, dal momento che tale stato non è più in grado di controllare che una parte sempre minore dei propri affari" (Hobsbawm, 1994, pag. 424). Fino a quindici anni fa, gli stati erano i centri di gravità, a livello nazionale ed internazionale.
Nel Nord il patto del benessere era basato su un'economia che produca posti di lavoro, uno stato che ridistribuisca il surplus e dei lavoratori che acquistino beni e paghino le tasse. Nel Sud lo stato "sviluppista" mobilizzava risorse produttive di tutti i tipi, dichiarando di voler venire incontro ai bisogni della popolazione. A livello internazionale, infine, il consenso riguardo allo sviluppo mise in opera un sistema di cooperazione bilaterale e multilaterale che avrebbe dovuto colmare il divario fra chi aveva e chi no.
La politica così come l'economia erano ampiamente legate al territorio; tuttavia, venendo meno il potere dei luoghi, questi contratti sociali sono destinati a sparire.
Il potere dei luoghi non è in declino solo in ambito economico.
Anche la televisione satellitare, il lavoro all'estero, il cyberspazio e il trasporto aereo convergono nello sciogliere i legami fra comunità e luoghi. Prende forma una sfera della realtà transnazionale, irrispettosa delle frontiere e trasversale rispetto ai territori nazionali.
Tuttavia, l'emergere del mondo quale spazio economico dove i capitali, i prodotti e i servizi possono muoversi senza troppo considerare le comunità locali e nazionali ha prodotto l'attacco più grave all'idea di politica come costruzione di reciproci diritti e doveri fra i cittadini. La globalizzazione fa a fette la solidarietà sociale. Attraverso la transnazionalizzazione il capitale evita ogni legame o fedeltà a una determinata società; al contrario: cose come pagare le tasse, creare impiego, reinvestire il surplus, rispettare le regole collettive o educare i giovani vengono considerate come meri ostacoli alla competitività globale.
L'emergere dell'arena transnazionale quale quadro di riferimento fa perdere importanza alla comunità nazionale. Ne risulta che in molte società si apre una frattura fra la classe media orientata globalmente, da una parte e, dall'altra, in termini di mercato mondiale, le popolazioni superflue.
Mentre rimuove le barriere fra le nazioni, la globalizzazione erige quindi nuove barriere all'interno delle nazioni. Ma sotto l'urto di questa tendenza si sta incrinando la base dello stato "sviluppista". Frequentemente, gli stati si alleano con le forze della globalizzazione e mostrano un crescente disinteresse per la maggioranza dei propri cittadini che vivono al di fuori del circuito globale (Kothari, 1993). Di conseguenza, la promessa di sviluppo per tutti, che costituiva prima il collante in grado di tenere insieme gli stati, viene a mancare e apre dietro di sé un'assenza di legittimazione. Mentre lo "sviluppo" conteneva ancora la speranza di una redistribuzione della ricchezza e del potere a favore dei poveri, la "globalizzazione" ri-dirige l'azione dello stato a vantaggio di chi cerca una posizione migliore a livello internazionale. In altre parole, l'interesse della politica nell'era della globalizzazione non sono i bisogni della gente, ma i diritti delle imprese. I governi perdono quindi il consenso legato allo sviluppo: considerano con sempre maggiore frequenza il bisogno di giustizia come estraneo alle proprie competenze.
La frana ha tolto terreno al consenso legato allo sviluppo non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Per decenni è stato dato per scontato che direttamente o indirettamente i governi del Nord avrebbero esteso la loro assistenza ai paesi del Sud sostenendoli nel cammino dello sviluppo. Con l'affermarsi delle idee neo-liberali a livello mondiale questa convinzione è sparita e le richieste di maggiore equità che vengono dal Sud rimangono in gran parte senza eco. In particolare, non trova più consensi il concetto - su cui furono edificate le Nazioni Unite - che "il progresso sociale dei popoli" è una questione di responsabilità pubblica a livello internazionale: sono gli investitori privati ad essere salutati invece come benefattori dell'umanità. Se nelle teorie sullo sviluppo lo Stato veniva considerato il motore della trasformazione, le teorie sulla globalizzazione affidano questo ruolo alle imprese transnazionali. Di conseguenza, le agenzie internazionali per lo sviluppo concentrano i loro sforzi nel facilitare l'azione delle imprese a livello mondiale, mentre le misure ridistributive fra i governi vengono lasciate da parte. Nella visione neo-liberale, una maggiore equità - ammesso che importi - è funzione dell'espansione della legge della domanda e dell'offerta a livello mondiale. Non più la cooperazione allo sviluppo, ma maggiori opportunità di investimento sono destinate ora a colmare il divario con il Nord. Ogni volta che si invoca oggi il "diritto allo sviluppo" si tratta con ogni probabilità di un invito alle élite nazionali ad inserirsi a pieno titolo nel circuito globale dei capitali e dei prodotti, piuttosto che un richiamo ad una maggiore solidarietà con la maggioranza della popolazione mondiale aldilà delle sirene del mercato globale.
Il futuro, secondo l'idea di "sviluppo", viene costruito come processo infinito di continuo miglioramento. Le condizioni di domani, ci viene detto, saranno migliori delle condizioni odierne, se la società viene spinta e organizzata in modo razionale. Lo sviluppo, nei decenni seguenti alla seconda guerra mondiale, è stato la reincarnazione dell'idea tardo-ottocentesca di progresso materiale, proiettata ora a livello mondiale e considerata realizzabile in pochi decenni attraverso la pianificazione e l'azione razionale. Come il progresso anche lo sviluppo è infinito: non conosce punto di arrivo. All'interno di questo quadro di riferimento divenne possibile, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale, concepire la giustizia come una maggiore partecipazione di un numero crescente di persone ad un surplus in espansione. La famosa metafora della torta che cresce e che permette fette sempre più grandi, mostra bene come si può intendere la giustizia quando l'umanità viene definita in termini di guadagno netto: giustizia come inclusione nel processo di crescita globale.
Ma tale concezione si basa sull'idea fondamentale - prevalente nel mondo occidentale a partire dal 1800 circa (Brunner et al., 1984, pagine 1-28) - che i processi economici sono senza dubbio un gioco a somma positiva, e cioè che i benefici accumulati avranno senza dubbio peso maggiore degli oneri causati dal processo stesso. Dietro queste osservazioni brilla ovviamente il famoso ottimismo della modernità riguardo alle conseguenze delle azioni umane: in fondo i moderni sono convinti che le conseguenze delle proprie azioni avranno sempre un saldo positivo, mentre le culture non-moderne tendono ad avere maggiore consapevolezza della fragilità delle azioni umane e considerano il risultato di tali azioni come fondamentalmente incerto.
Tale ottimismo riguardo al futuro - dopo che era stato scosso dagli eventi catastrofici di questo secolo avvenuti nel cuore dell'Europa - è stato infine spazzato via da quella che è stata eufemisticamente chiamata la crisi ecologica. Ben lontano dall'essere un semplice fenomeno transitorio, l'emergere dei limiti biofisici alla crescita economica ridefinisce le condizioni della creazione di ricchezza per i secoli a venire. Dal livello locale a quello globale, è divenuto chiaro in molti campi che le risorse (acqua, rame, petrolio, minerali, etc.), i luoghi (i giacimenti minerari, gli impianti agricoli, le infrastrutture) e le terre, gli oceani, l'atmosfera che ci fornisce la natura si stanno esaurendo o alterando.
Il progresso materiale, d'ora in poi, dovrà operare all'interno di una serie di limiti. Nonostante la crescita economica sia durata solo qualche generazione e sia stata limitata ad una minoranza della popolazione mondiale, la sua finitezza è già divenuta evidente. Prendiamo il caso dell'effetto serra.
Gli oceani e la biomassa terrestre sono in grado di assorbire ogni anno 13-14 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio , CO2, una quantità che poteva essere quindi liberata dalla combustione di foreste ed energia fossile senza provocare conseguenze dannose. Se dividiamo la quantità a disposizione per la popolazione attuale di 5,8 miliardi di persone, dovrebbe essere consentito a ciascuno di emettere 2,3 tonnellate annue di CO2. Il tedesco medio, tuttavia, ne emette 12 e l'americano medio 20. Se tutti i paesi seguissero l'esempio tedesco quanto a produzione e consumo, il mondo produrrebbe 67 miliardi di tonnellate di CO2. In altre parole, l'umanità avrebbe bisogno di cinque pianeti per assorbire tutto il diossido di carbonio.
I cambiamenti climatici sono l'esempio più ovvio, ma esempi simili ci vengono anche da altri limiti emersi negli ultimi anni: un'eguaglianza globale sul modello dei paesi altamente industrializzati metterebbe seriamente in pericolo l'ospitalità che la biosfera offre agli umani. In queste condizioni il messaggio implicito nella metafora della torta che cresce appare distorto: non è con una crescita sempre maggiore che si otterrà un più alto livello di equità. Anche ammettendo che non vi sia alcuna relazione stabile fra le dimensioni monetarie e le dimensioni fisiche di una economia, non è esagerato affermare che la tradizionale ricchezza economica è intrinsecamente oligarchica; può essere resa democratica solo a costo di un disastro a livello della biosfera. Da questo punto di vista è errato considerare la crescita economica come un gioco a somma positiva: al contrario, la crescita accumula effetti collaterali avversi su scala talmente vasta che in senso euristico diviene conveniente considerarlo piuttosto un gioco a somma zero. O, per usare un'altra metafora cara ai protagonisti della crescita: la marea crescente, prima di essere in grado di sollevare tutte le imbarcazioni, romperà probabilmente gli argini.
Più specificamente, la novità annunciata dalla crisi ambientale non è tanto il riconoscere che la crescita incide sulla natura, ma il fatto che le conseguenze spiacevoli non possono più essere tenute a distanza. La creazione di valore, soprattutto durante l'età delle energie e dei materiali fossili, è sempre stata l'arte di mantenere i costi all'esterno ed i benefici all'interno. Diventa molto più facile far maturare valore quando - con la mediazione del potere - è possibile stabilire un meccanismo che concentra i benefici al centro e fa scivolare i costi verso la periferia. Ciò che viene quindi contabilizzato ufficialmente come valore, sarebbe un dis-valore nei conti potenziali delle generazioni future, di paesi lontani o della gente umile. Questo perché nella storia del progresso il tempo, lo spazio e le gerarchie sociali sono state le principali dimensioni per mantenere i costi lontano dalla vista e da proporzioni ragionevoli. Per oltre un secolo, spostare alcuni degli effetti negativi del progresso economico lungo l'asse del tempo delle generazioni future è stata una pratica non dichiarata; la spoliazione delle riserve fossili, il degrado dei suoli, la perdita di biodiversità, i cambiamenti climatici abbasseranno con ogni probabilità le possibilità dei posteri di condurre una vita rigogliosa, perlomeno secondo le aspirazioni odierne. Inoltre, il progresso delle nazioni occidentali è stato facilitato dalla dislocazione dei costi in aree geograficamente remote; le grandi distanze hanno permesso al centro di evitare di sentire gli effetti negativi delle miniere, delle monoculture, della deforestazione. Infine, come si può osservare oggi in molti paesi del Sud, le classi dei consumatori sono riuscite a scaricare i costi ambientali sui gruppi che si guadagnano da vivere grazie ai frutti della natura: costruire dighe, estrarre minerali, perforare le falde acquifere e capitalizzare l'agricoltura comporta spesso l'evacuazione dei piccoli contadini, degli artigiani, dei popoli indigeni che vedono degradato l'ecosistema che gli permetteva di vivere (Gadgil e Guha, 1995).
Tuttavia oggi vengono meno quelle distanze che una volta separavano in modo rassicurante i luoghi di accumulazione dai luoghi di sfruttamento, i vincitori dalle vittime. I costi che venivano scaricati sul futuro ricadono già sul presente: geograficamente sono rimaste poche frontiere di sfruttamento: e socialmente gli emarginati appaiono ormai sulla soglia dei ricchi. Come accade in generale per la globalizzazione, il mondo è diventato più piccolo, nel bene e nel male. Il vecchio principio della termodinamica che la produzione genera sia ricchezza sia rifiuti appare sempre più evidente ed insieme alla globalizzazione della produzione di ricchezza anche la produzione di rifiuti si stringe sul pianeta. Per queste ragioni, la nozione di "società mondiale del rischio" di U. Beck descrive adeguatamente le condizioni storiche presenti. Con la crescita economica, i rischi che si producono sembrano crescere più rapidamente delle certezze generate. Per queste ragioni, all'alba del ventunesimo secolo la giustizia sarà più una questione di ridurre i rischi che di redistribuzione delle ricchezze.
In una società mondiale del rischio è diventato obsoleto trasformare l'aspirazione alla giustizia in richieste di sviluppo economico accelerato. Dato che lo spazio ambientale a disposizione dell'umanità è limitato e per certi versi già abusato, la crescita di tipo convenzionale su enorme scala fisica è destinata a moltiplicare i vari pericoli.
All'epoca di Truman il progetto di sviluppo su scala mondiale appariva ancora come un gioco globale a somma positiva: non si sospettava che il viaggio verso la modernizzazione potesse venire travolto ad un certo punto da una marea montante di rischi. Nelle nuove condizioni storiche diventa quindi di vitale importanza slegare il concetto di giustizia dall'idea di sviluppo.
Sicuramente "sviluppo" contiene un'aspirazione nobile le cui radici risalgono alla prima metà del diciannovesimo secolo, il periodo in cui si è fondato il pensiero socialista. Sotto l'impressione generata dai rapidi progressi tecnologici, il socialismo intuì che vi era una soglia di progresso tecnologico sotto la quale non si sarebbe potuta ottenere equità. Di conseguenza, progressisti di ogni tipo hanno lavorato per diffondere il progresso in modo da sollevare i poveri, prima in Europa e poi nel resto del mondo. Questa convinzione non è probabilmente smentibile, ma sta per rivelarsi pericolosamente limitata. E questo perché le nuove condizioni storiche suggeriscono che esiste anche un limite allo sviluppo basato sullo sfruttamento intensivo della natura oltre il quale non è più possibile ottenere equità. L'agricoltura chimica, la società dell'automobile o l'alimentazione a base di carne sono alcuni esempi. Questi livelli di sviluppo sono strutturalmente oligarchici: non possono venire generalizzati a livello mondiale senza mettere a rischio le possibilità di sopravvivenza di tutti. Dal momento che il venti per cento della popolazione mondiale gode dei più alti salari consuma l'85% del rame, il 75% dei metalli e il 70% dell'energia mondiale (fonti UNRISD, 1995) non c'è alcuna possibilità che questo stile di vita possa divenire lo standard di equità, anche prendendo in considerazione consistenti possibilità di risparmio.
Al contrario, prendendo in considerazione il limitato spazio ambientale, il settore più ricco dell'umanità si appropria in ogni caso di risorse naturali a scapito dei settori meno privilegiati della popolazione mondiale. Di conseguenza, l'impegno per la giustizia assume una connotazione nuova: è il ricco che va preso in considerazione.
Le teorie convenzionali dello sviluppo definiscono implicitamente l'equità come un problema dei poveri. Confrontati con il divario che separa i ricchi dai poveri, i teorici dello sviluppo concepiscono tale divario innanzitutto come un deficit di chi non ha potere e non come una colpa dei potenti. Si lanciano a migliorare gli standard di vita dei poveri per raggiungere il livello dei ricchi. Lavorano ad innalzare la base piuttosto che ad abbassare il vertice (Haavelmo e Hansen, 1991, pp. 27-35). Tuttavia, con l'emergere dei limiti biofisici alla crescita, le nozioni classiche di giustizia, pensate in un quadro finito e non in una prospettiva infinita, acquistano nuovo rilievo: la giustizia è cambiare il ricco e non cambiare il povero. In modo simile, la richiesta di giustizia in una società mondiale del rischio richiede innanzitutto un abbassamento o perlomeno una trasformazione del vertice piuttosto che un innalzamento della base. Di fronte ad uno scenario di profonda diseguaglianza globale nell'uso delle risorse, è il Nord (e le sue appendici nel Sud) che ha bisogno di aggiustamenti strutturali. Oltre e prima ancora di redistribuire le ricchezze, il Nord deve rivedere i propri modelli di produzione e consumo in modo da non privare i paesi del Sud di ciò che dovrebbero avere a disposizione.
Dopotutto, la classe dei consumatori del Nord occupa lo spazio ambientale a disposizione - il patrimonio della natura sul pianeta - in maniera eccessiva: il passo più importante da compiere nello spirito di responsabilità globale è un ritiro sistematico dall'utilizzare la terra di altri popoli ed i beni globali in comune quali l'atmosfera e gli oceani. Le economie del Nord incidono pesantemente sulla natura e su altre popolazioni: è questo fardello che va ridotto. Lo spazio ambientale che può essere rivendicato legittimamente da una società è delimitato da un lato da limiti ambientali e dai diritti di altre società dall'altro. Quanto a questo secondo criterio, l'unica regola difendibile è che tutti i cittadini del pianeta dovrebbero avere eguale diritto alle risorse naturali della terra.
Tuttavia, bisognerebbe anche affrettarsi a dire che tale principio non va confuso con un obiettivo di programma per una redistribuzione a livello planetario: è piuttosto un principio morale che dovrebbe guidare i comportamenti dei singoli. Improvvisando liberamente sull'imperativo Kantiano, sembra sensato affermare che una società può dirsi sostenibile se il massimo delle sue azioni è tale che potrebbe essere in linea di principio anche il massimo di qualsiasi altra società. La giustizia richiede soprattutto auto-osservazione: il principio che tutti i popoli hanno uguali diritti riguardo alle risorse della terra è una unità di misura per fare della propria società un attore globale onesto.
Una recente ricerca mostra che se i paesi industrializzati aspirassero a divenire dei buoni vicini a livello globale, dovrebbero ridurre dieci volte il loro consumo di risorse nei prossimi cinquant'anni (Amici della Terra, 1993; Amici della Terra, 1995; Bund-Misereor, 1996).
Senza dubbio, questa sfida enorme risulterebbe in un mutamento di civiltà tale da richiedere sia talento tecnologico, sia nuove virtù pubbliche. Ma la sufficienza è stato il tratto della giustizia prima che prendessero piede i sogni di infinito; è destinata a divenire l'asse attorno al quale ruoterà ogni nozione di giustizia post-"sviluppista". In futuro la giustizia sarà una questione di prendere di meno piuttosto che di dare di più. I paesi meno potenti nell'ambito dell'attuale generazione hanno bisogno di maggiore spazio ambientale per poter esprimersi e c'è bisogno che i paesi opulenti limitino se stessi come condizione di equità intra- e inter- generazionale.
In breve, chi vuole giustizia deve parlare di sufficienza.