TAVOLA ROTONDA INTERRELIGIOSA
Paolo Naso: moderatore
Il Convegno ha un tema di grande interesse, tema sul quale Confronti, la rivista per cui lavoro, investe notevoli energie.
Siamo convinti che il tema del pluralismo delle religioni, non soltanto delle culture, non soltanto delle etnie, ma il pluralismo anche delle religioni e delle comunità di fede, è uno dei tratti caratteristici del nostro tempo ovunque noi andiamo.
Tratteremo qui del pluralismo non con una paludata relazione, ma cercheremo di raccontarlo attraverso alcune testimonianze. Il mio compito sarebbe quello di dare la parola e presentare i relatori, però credo di potermi permettere qualcosa di più. Vi chiederò perciò qualche minuto prima di presentare i relatori e qualche minuto dopo che i relatori avranno parlato per proporvi io stesso qualche spunto.
Per introdurre la giornata di oggi, vi voglio raccontare tre brevissime storie.
Si tratta di storie, di riferimenti letterari, di persone: una persona da cui vorrei partire è un certo signor Chironna, raccontato in un libro famoso di un grande autore italiano: Rocco Scotellaro che ha scritto un volume, "Contadini del sud", volume di "bozzetti", storie di persone, uno di questi bozzetti era dedicato a tale Chironna.
Chi era Chironna nella Basilicata degli anni cinquanta, quando le chiese Pentecostali venivano chiuse dalle autorità e dalle forze di polizia, quando i pentecostali, definiti tremolanti perché nelle loro attività e nei loro culti invocavano la presenza dello Spirito ed esprimevano tremolando questo tipo di partecipazione, venivano considerati dei matti, e perseguitati perché matti?
In quellItalia - che non è lItalia dei nostri bisnonni ma è lItalia dei nostri padri - Rocco Scotellaro meridionalista, laico, scopre la storia di Chironna. Si tratta di un bravo contadino che sa praticare un innesto particolare nelle piante di pesco, è un comunista che ha lavorato e combattuto per la terra nei movimenti bracciantili della Basilicata di quel tempo. Chironna è anche un evangelico, un battista che vive la sua fede nellItalia degli anni cinquanta, come persona di minoranza che non appartiene alla religione per eccellenza degli Italiani che si presuppone essere, ieri molto più di oggi, la religione cattolica.
La storia di Chironna evangelico è una storia significativa perché lui non è il valdese presente in Italia da otto secoli, non è neppure lebreo presente in Italia da sempre. Chironna è un battista, cioè il figlio di una tradizione evangelica molto più recente, e siamo negli anni cinquanta..
Seconda storia: questa è una storia che alcuni di voi ricordano molto bene. Siamo nei primi anni ottanta, il movimento per la pace è attivo contro le installazioni nucleari in Europa. Tra i primi ad arrivare in Italia a testimoniare il loro impegno per la pace e il disarmo, vi furono dei monaci buddisti che ad alcuni di noi apparvero come degli alieni.
Ricordo la prima volta che i monaci buddisti vennero a casa mia. Questi signori erano attesi per le ore quindici e alle quindici e trenta non erano ancora arrivati, alle ore sedici non cerano ancora, alle sedici e trenta cominciai a telefonare& Questi signori già dalle tre si trovavano allingresso del mio condominio senza bussare, perché mi stavano aspettando. Tali persone mi apparvero come degli alieni: erano capaci di camminare per centinaia di chilometri e assiduamente continuavano a parlare e a testimoniare di pace, con la loro tradizione, con la loro ricchezza spirituale, con il dono della loro allegria, della loro preghiera, delle loro tradizioni.
Vorrei ora raccontare la vicenda di una base missilistica, nella quale ora ci sono pochi profughi kosovari, in cui si dovevano installare dei missili e in questa base, come sempre accade, si prevedeva anche la costruzione di una chiesa per permettere a chi organizza la morte degli altri di avere un proprio spazio personale. La chiesa fu benedetta e intitolata col nome solenne di Regina Pacis, la storia poi ha voluto che la base militare fosse chiusa e la chiesa tristemente abbandonata. Ora in quella base lassoluta maggioranza è musulmana e quindi la chiesa è completamente inutilizzata. La continuità della presenza di monaci buddisti, in particolare di uno che è rimasto dal 1981 in questa base che è la base di Comiso in Sicilia, ha consentito che un anno e mezzo fa, chiusa Regina Pacis, sorgesse là una pagoda di preghiera. NellItalia, la cui religione predominante è quella cattolica accade che Regina Pacis chiuda le sue porte, circondata da fratelli musulmani, e che una piccola pagoda, aperta a tutti si consolidi e si raffermi come simbolo di una presenza e di una ricchezza spirituale e religiosa.
La terza storia è molto personale. Correvano i primissimi anni 80. Dove abitavo io ci fu unespulsione in massa di settanta cittadini senegalesi che dalloggi al domani furono messi in mezzo alla strada. In quelloccasione queste persone vennero a chiedere aiuto alla chiesa valdese la quale possedeva un teatrino, una stanza che serviva come luogo di aggregazione per i giovani negli anni 50-60. La stanza non era più utilizzata e così questi senegalesi vennero accolti dalla comunità, la quale si dichiarò "santuario", cioè luogo di rifugio (come nella tradizione medioevale dei santuari). La chiesa valdese istituzionalmente si assunse la responsabilità di ospitare dei clandestini, degli illegali, tanto che ci fu una dichiarazione di disobbedienza civile in questo senso. Un giorno mi chiesero di utilizzare i locali per una preghiera particolare. Si trattava di una comunità senegalese che faceva riferimento a una confraternita e veniva unimportante personalità dal Senegal per questa occasione che per loro rappresentava una grande festa: volevano cucinare e pregare. Era una cosa che scatenò nella nostra comunità di cristiani valdesi una grande discussione. La preghiera ebbe luogo ugualmente e alcuni di noi vi parteciparono e ancora oggi ricordiamo quel momento come uno dei momenti più edificanti della nostra vita spirituale.
Tutto questo per dire che nella Basilicata degli anni 50, nella Sicilia degli anni 80 e 90, nel Lazio, nella Lombardia, degli anni 80: insomma nella storia dItalia noi abbiamo vissuto e ancora oggi viviamo uneccezionale dimensione di pluralismo e ne siamo totalmente inconsapevoli. Ancora oggi esistono due termini che andrebbero cancellati da tutti i vocabolari: il primo è il termine acattolici, che nel linguaggio giuridico, indica tutti quelli che non sono cattolici: esistono le legislazioni sugli acattolici... Ma come si fa a parlare di pluriverso se esiste nel nostro sistema di pensiero e di organizzazione giuridica un termine che accomuna tutti gli altri semplicemente avendo come tratto di caratterizzazione il fatto di essere diversi dalla religione di maggioranza?
Laltro termine ricorrente e inteso come politically correct è quello delle minoranze religiose. Certo io sono valdese, in Italia ci sono 25.000 forse 30.000 valdesi non facciamo tanti figli, io ne ho soltanto uno, dunque diminuiamo, siamo una minoranza . Ma si conta di meno, se si è una minoranza? La mia identità di fede, come quella delle persone sedute a questo tavolo, conta di meno sul piano dei diritti, sul piano del riconoscimento perché appartiene a piccole comunità di fede, a delle minoranze? Possibile che anche i valori dello spirito, della libertà di coscienza debbano essere recepiti sul piano delle logiche di maggioranza e minoranza? Io personalmente sono contro questa logica. Io non sono un teologo, né uninsegnante, sono un informatore e proprio linformazione sta rendendo il peggiore servizio alla causa che ho appena descritto nel senso che sono i giornali che scrivono degli acattolici e delle minoranze.
LItalia è pluralista, nel nostro lavoro di educatori e di animatori prendere coscienza di questo pluralismo è una grande vocazione e credo che tanti discorsi sullintercultura debbano necessariamente sfociare nel discorso sulla dimensione plurireligiosa che esiste nel nostro paese. Esiste un pluriverso anche delle religioni: averne coscienza sarebbe un grande tratto di modernità del nostro Paese. Anche essere europei significa essere più consapevoli di questa dimensione di pluralismo.
Oggi proviamo a raccontarlo con tre ospiti: il primo è Hamza RobertoPiccardo: è italiano, è portavoce dellUnione delle Comunità degli Organismi Islamici in Italia, è un grande animatore dellIslam italiano. Ha curato la sesta edizione del Corano che è stata pubblicata dalla casa editrice Newton Compton per alcune decine di migliaia di copie. Qui oltre a trovarvi il testo del Corano, tradotto con rigore e con serietà, vi si annovera un apparato ricco e interessante di note che al lettore non musulmano servono molto. Hamza Piccardo rappresenta lIslam italiano nel senso proprio degli italiani che sono musulmani, i quali, come tutti sappiamo, sono la seconda comunità di fede del nostro Paese.
La seconda persona è Jiso Forzani che è un monaco buddhista della tradizione zen. Fa parte di una comunità interreligiosa che sorge a Galgagnano, vicino a Lodi e il padre di questa avventura della fede è Luciano Mazzocchi, un missionario saveriano.
La terza persona è Brunetto Salvarani, insegnante, assessore alla cultura, direttore della rivista QOL, la quale è uno dei "luoghi" del dialogo ebraico-cristiano più importanti in Italia.
Procederemo in questa maniera: io farò quattro domande e ogni relatore avrà a disposizione 5-7 minuti per rispondere, così da creare un po più di intreccio tra i vari interventi perché ci sarà la possibilità di riprendere lintervento precedente, o di citarlo, anticipando così il dibattito.
Prima domanda
La prima domanda va a tutti e tre: è la rispettiva storia spirituale che in qualche caso è una storia di conversione e in altri casi è una storia di confessione, cioè di radicamento nella tradizione di fede da cui usciamo per tradizione.
Hamza Roberto Piccardo:
Ai termini di conversione e di confessione, ne vorrei aggiungere un altro che per noi musulmani è quello di ritorno nel senso che la creatura, a prescindere dal fatto che sia stato educata in una tradizione diversa da quella islamica a un certo punto della sua vita sente la necessità di tornare a Dio. Fa parte della nostra dottrina e quindi è un punto forte della nostra fede ritenere che, così come ci ha detto il profeta Muhammad, ogni creatura nasce sottomessa alla volontà di Dio e quindi nasce musulmana, in quanto Islàm non vuol dire altro che sottomissione alla volontà di Dio. Così la fitra, la naturalità, quello che è connaturato in noi, quello che la psicologia contemporanea ha definito spesso con "inconscio biologico", "inconscio collettivo", è presente in ogni bambino appena nato: il profeta infatti ha detto che ogni bambino nasce musulmano e poi leducazione lo porta ad essere magari cristiano, ebreo o majus che vuol dire Zoroastriano.
E comunque sia, in qualsiasi momento della vita di una persona ci può essere un ritorno a Dio, questo sia per coloro che sono stati educati nella tradizione islamica sia per chi, invece, ha avuto unaltra educazione. Questo per noi è la tawba che sta per ritorno o anche pentimento. Noi che siamo nati in Italia da famiglie italiane, cattoliche, più o meno praticanti, ci riteniamo dei ritornati a Dio nella nostra età matura, in base a quella fitra, a quella naturalità in cui eravamo stati creati. Questa è la nostra maniera di intendere ladesione piena, consapevole dellindividuo alla fede e a una manifestazione, una testimonianza di questa fede che è poi la forma religiosa.
La storia che mi riguarda è una storia che poi potrebbe essere comune a molti che hanno più o meno la mia età. Sono nato nel 52 e avevo sedici anni nel 68 quando smaniavo per andare in Francia a vedere cosa facevano gli studenti a Parigi. Non mi lasciarono partire e poi mi rifeci dal 79 all85, anni in cui il movimento giovanile in Italia si saldava con quello operaio, quello sociale, in una lotta che eravamo convinti tendesse al bene e alla giustizia. Ci accorgemmo, forse tardi, che il nostro movimento stava andando alla deriva. Io in particolare me ne accorsi, ad un certo punto, quando sembrava che luomo fosse diventato un mezzo, che si potesse praticare la violenza contro le persone per fare il bene, e questo non riusciva a collimare con i miei valori. E allora mi allontanai, finito il servizio militare, che in parte svolsi proprio in quei territori di cui parlava prima Paolo Naso, in quella Basilicata bracciantile che era stata così maltrattata dal governo centrale.
Dopo la naia scelsi come destinazione il deserto del Sahara. Non so esattamente per quale motivo mi attirasse. In quel viaggio incontrai una dimensione della fede che non avevo mai sperimentato. Ero stato educato in una famiglia cattolica che mandava i bambini a messa, ma che non praticava; arrivato a tredici anni mi ero convinto che la fede fosse una cosa per i bambini e per i vecchi. Io non ero più bambino e certamente non ero vecchio: non mi interessava più e quindi labbandonai, corroborato notevolmente da quello che era il pensiero dominante in quel momento. Fu comunque in pieno deserto del Sahara, forse a 1.500 km da Algeri, che incontrai una manifestazione della fede normale per i musulmani, ma che a me apparve straordinaria: vidi la gente pregare nel deserto. Il sole era appena sceso, era il primo giorno di viaggio tra Tamanrasset in Algeria e Agadez nel Niger, oltre mille chilometri di pista, percorsi su di un vecchio Berliet carico di balle di coperte. Qualcuno dei passeggeri che viaggiava aggrappato a quel carico scese dal camion, fece labluzione con la sabbia e cominciò a pregare recitando la preghiera del tramonto. Io rimasi a guardare con una curiosità che credevo fosse antropologica. In realtà da quel momento la fede cominciò a lavorare allinterno di me stesso. Fu un processo lungo però: era il 75 e ci misi 9 anni ad accettare in pieno la religione. Fu una battaglia continua tra quello che ero e quello che avrei voluto essere. Sperimentavo la certezza dellesistenza di Dio, mi dicevo convinto della bontà della maniera di adorazione di Dio propria dell'Islàm e al contempo mi vedevo così occidentale, proveniente da unaltra storia, da unaltra cultura: sarei stato costretto a rinunciare a tante abitudini tipicamente occidentali. Nonostante ciò, proseguiva dentro di me la ricerca, solitaria (quasi non cerano musulmani in Italia in quel periodo). Nel 1984, quando ormai probabilmente il mio percorso era arrivato ad una svolta, Dio mi diede alcuni aiuti nelle persone che mi fece incontrare, nelle situazioni che mi fece vivere e capii che non si può adorare Dio così come ognuno di noi vuole; Dio va adorato così come Lui ci ha chiesto di essere adorato. Nei Suoi confronti non esiste il "secondo me", "io credo che..."; ci deve solo essere sottomissione, Islàm. Da allora è cominciata unaltra stagione della mia vita. Avevo allora 32 anni: cominciai a dedicarmi sempre più allapprofondimento della religione e poi alla sua divulgazione. Noi italiani musulmani siamo pochissimi, la nostra funzione fondamentale, in un Paese che vede la presenza islamica aumentare in maniera significativa, è quella di essere ponte tra le diverse comunità dei musulmani, tra le diverse opzioni della fede, che ci sono anche allinterno del mondo islamico, fra i musulmani e la società italiana. Vogliamo testimoniare questa nostra presenza e questo nostro impegno cercando di far capire ai nostri fratelli il concetto della pluralità, non solo tra le diverse religioni ma anche allinterno della stessa religione, ricordando che lamore aiuterà a superare le differenze.
Jiso Forzani
La mia storia è per certi versi quasi identica a quella del fratello musulmano che mi ha preceduto. Mi sono iscritto alluniversità nel 68 e ho partecipato con grande entusiasmo e impegno a tutto il movimento politico del tempo. Io sono partito per lIndia e ci sono rimasto per un paio danni e lì ho scoperto un senso della religiosità diverso da quello che mi era stato trasmesso. Il silenzio, molto raccomandato dalle religioni dellOriente, mi ha aiutato molto nella mia ricerca, ma mi ha anche confuso, dato che le mie categorie di pensiero erano, e in parte restano, occidentali. Me ne sono accorto dopo otto anni passati in un monastero giapponese, in cui alla fine ho realizzato& che non sono giapponese; che non ho nessuna intenzione di diventarlo; e che una testimonianza buddista non deve per forza essere orientale. Questa ricerca confusa, condotta in maniera autonoma in India, mi ha dato molto perché mi ha tolto molte sicurezze. Ho capito che il cammino religioso è un cammino anche nellinsicurezza, nel deserto, nellignoranza e nella coscienza dellignoranza. Quindi è un cammino di povertà, di spoliazione, fondamentalmente. Questo penso sia, per inciso, molto importante anche nellatteggiamento di dialogo fra religioni le quali testimoniano, se la testimonianza è vera, una povertà e non una ricchezza. A un certo punto, nel momento della più grande confusione anche mentale, data da questo sforzo, che stavo conducendo di comprensione, mi è stata proposta la pratica religiosa dello za zen che vuol dire stare seduti nello zen, nel silenzio. E questo stare seduti in silenzio per me è stata la chiave di volta che mi ha permesso la spoliazione, la liberazione da questo bagaglio di incertezze e di quesiti che da tempo mi portavo dietro. Non credo che la conversione sia il passaggio da una religione ad unaltra, non credo che un cattivo cristiano che si converte possa diventare un buon buddista, perché la conversione è il cambiamento del cuore, dellatteggiamento globale di ciascuno verso la vita, verso lesistenza. La conversione è senzaltro un momento, ha un inizio, ma poi è un cammino di vita.
Quindi oltre alla mia permanenza di otto anni in un monastero giapponese, laltra esperienza fondamentale per il mio cammino è stato che nel momento in cui io sono arrivato in questo monastero, la prima cosa che labate mi ha chiesto è stata la ragione della scelta di entrare in un monastero giapponese, invece che francescano o altro. Ciò che mi ha sconvolto non è stata la domanda in sé, ma il fatto che fino ad allora non me lero posta. Evidentemente era ancora vivo in me quellatteggiamento religioso di chi pensa ancora che la verità non sia lappartenenza specifica ad un determinato gruppo o ad una determinata tradizione religiosa, ma sia invece la verità che brilla ovunque e che ognuno testimonia in modi diversi. Lincontro tra la religiosità cristiana e quella buddista è avvenuto, dentro di me, stimolato dalla persona che mi aiutava a diventare un miglior buddista e che mi proponeva allo stesso tempo di riconsiderare il vangelo. Mi sono così messo a rileggere il vangelo in quel monastero buddista, circondato da monaci buddisti e questo ha fatto sì che il cammino religioso diventasse per me un cammino di dialogo, di apertura, di testimonianza della mia fede, della mia realtà e nello stesso tempo di incontro con la testimonianza dellaltro.
Brunetto Salvarani
La mia testimonianza rischia seriamente, in questa tavola rotonda, di essere la più scontata, per un paese cattolico fino al midollo (almeno nominalmente) come il nostro. Provengo infatti da una famiglia cattolica mediamente tradizionale che mi ha educato "normalmente" alla catechesi cristiana e ai sacramenti, saldamente radicata in quella bassa modenese-reggiana in cui le ideologie che forniscono di senso le esistenze sono -almeno nell'arco di questo secolo che si sta chiudendo- da una parte quella religiosa cattolica e dall'altra quella comunista. Ho provato, per l'occasione, a ripensare al mio itinerario di formazione, e vi ho colto tre momenti importanti che mi pare costituiscano delle svolte decisive rispetto a questa appartenenza fondamentalmente sociologica, tutto somato scontata e -come dicevo- per tanti versi assolutamente "normale".
Il primo contesto è quello dell'immediato post-concilio, che mi ha aiutato a capire come sia possibile (e "bello") vivere la fede cattolica nell'ambito di un gruppo, di una comunità giovanile, fino ad adottare quali parole chiave per la mia vita di adolescente la liturgia partecipata, la "lectio divina", la solidarietà con gli "ultimi". Le novità apportate dal concilio, però, vengono quasi subito incanalate in una certa direzione e pressoché annullate, tanto da produrre una sorta di reazione che passerà alla storia col nome - certo ambiguo - di "dissenso": iniziano qui le prime esperienze di lavoro e di preghiera comune con una parte del mondo evangelico italiano, che sottolineano la necessità di un maggior collegamento fra la pratica dei sacramenti e la vita quotidiana. Il dissenso, fra l'altro, mette a fuoco il tentativo spericolato quanto coraggioso di trovare un'unità dialettica fra i due mondi vitali che ho citato prima, quello cristiano e quello marxista (la formula è di uno dei pensatori più all'avanguardia di quegli anni, Giulio Girardi). L'istanza di fondo, in ogni caso, era quella di fare i conti con la dimensione sociopolitica della realtà: un'istanza che si traduceva in un felice slogan barthiano che recitava "la Bibbia in una mano e il giornale nell'altra".
Il secondo contesto prende le mosse dalla mia scelta, alla fine del liceo classico, di studiare teologia da laico (vale a dire, senza immaginare di prepararmi a fare il prete) a Reggio Emilia, nello Studio teologico interdiocesano per le chiese di Carpi, Modena e Reggio. Durante quella stagione di studi a loro modo "matti e disperatissimi" (ma anche straordinariamente fecondi di incontri ed esperienze) scoprii un universo molto più vasto del precedente, contribuendo alla nascita di un gruppo informale di giovani teologi che avevano la parola d'ordine di "andare alla scuola di Israele" e l'intento di far dialogare il cristianesimo con l'ebraismo. In quello stesso tempo ci accorgemmo che in diversi monasteri del nostro paese, da Bose a Camaldoli, si stava facendo un cammino di scoperta -o di "riscoperta"- delle radici ebraiche del vangelo, a partire, semmai, dalla lettura appassionata dei raccontini dei chassidim (i "pii" ebrei dell'Europa orientale del '600), o di romanzi quali quelli di un Isaac Bashevis Singer e di un Joseph Roth. Ci sembrava sempre più chiaro, ad esempio, che dietro all'eucaristia che così faticosamente celebravamo ogni domenica c'era il "seder", vale a dire la cena pasquale ebraica, e il senso dello "zikkaron", del memoriale; c'era non soltanto il ricordo forte dell'ultima cena di Gesù di Nazaret, ma anche ciò che lo stesso Gesù stava in quel momento celebrando, vale a dire, appunto, un "seder". Prender parte ad una eucaristia cattolica significava, perciò, entrare in un circuito di memorie collettive che si riallaccia a quanto ogni anno, a Pasqua, i fratelli maggiori ebrei si dicono reciprocamente proprio durante il "seder": "Quest'anno noi siamo usciti dall'Egitto". "Quest'anno", e non l'anno scorso né 2500 anni fa con Mosè, ed ogni anno deve essere come se noi stessi fossimo usciti dalla schiavitù. Leggere la Bibbia con l'aiuto degli ebrei fu davvero qualcosa di decisivo per noi, tanto che decidemmo di inventare una nuova rivista tutta dedicata a questo tema, che si chiama "QOL" ("voce", in ebraico), esiste ancor oggi e da subito cercammo di caratterizzare per l'ospitalità, il non-professionismo dei redattori e l'umiltà con cui intendevamo, appunto, porci alla scuola di Israele. Nel corso degli anni seguenti, per la verità, occorre segnalare che molti passi sono stati compiuti dalla mia chiesa in questa direzione: basti pensare, ad esempio, alla straordinaria intuizione dei vescovi italiani di intitolare il giorno 17 gennaio di ogni anno "giornata di riflessione sull'ebraismo" (si tratta del giorno precedente all'inizio della tradizionale Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani), quando si resero conto che la prima frattura, la più grave, era stata quella con la sinagoga, e che tutte le altre fratture fra cristiani venivano dopo.
Il terzo scenario, conseguente ai primi due, mi vede poi per sette anni direttore di un importante Centro di Studi Religiosi che si trova a Modena, quello della Fondazione-Collegio San Carlo, nonché collaboratore a vari livelli del CEM-Mondialità: esperienze che mi hanno segnato profondamente in vista di un ulteriore allargamento della prospettiva in chiave mondialista, interreligiosa, di studio "laico" della Bibbia e delle altre religioni (dall'islam al buddhismo). Che poi tanto "altre" non lo sono più, in quanto fanno parte sempre più chiaramente del panorama multireligioso del nostro paese. Ricordo, per inciso ma non troppo, la mia partecipazione in quegli anni (dalla metà degli anni '80 ad oggi) alla nascita del Comitato Bibbia Cultura Scuola, impegnato su scala nazionale a verificare quanto e in che senso la Bibbia possa essere considerata il "Grande Codice" della nostra cultura occidentale, senza la conoscenza della quale è impossibile decodificare quanto ci sta attorno. Ma questa è ormai storia dell'oggi, e probabilmente anche del domani.
Seconda domanda
"Chi è per ciascuno di voi laltro?" Questa è la domanda base di ogni relazione.
Jiso Forzani
Da cinque anni ho iniziato unesperienza comunitaria che vede la presenza di p. Luciano Mazzocchi: e quindi in questo caso per me laltro è lappartenente ad unaltra tradizione religiosa, di un altro modo di dire la verità, di unaltra testimonianza ed è parte integrante del mio cammino. Lesperienza che sto conducendo adesso non è né di sincretismo, né di semplice convivenza, nasce dalla visione di far coesistere nello stesso spazio di vita quotidiana vissuta (lavoro, studio e pratica religiosa) due esperienze per certi versi diversissime: in questo caso quella cristiana cattolica e quella buddista. Quindi per me, nel mio caso laltro è qualcosa di specifico ma può essere allargato a tutte le possibili esperienze che ciascuno di noi può fare. Laltro è qualcuno di molto preciso: quello che mi testimonia qualche cosa che io non testimonio in quel modo lì. Io parlo sempre di dialogo religioso e non interreligioso o intrareligioso come dice Panikkar, perché credo che il dialogo sia autentico se è religioso, poi diventa dialogo fra le tradizioni, ma prima deve essere religioso latteggiamento del dialogo e per religione intendo quel rapporto di povertà, di spogliazione nei confronti della verità, di riconoscimento del proprio limite nei confronti di una verità che non ha limite. Le differenze sono molto importanti, più delle somiglianze, perché sono il segno che laltro è un altro, che mi testimonia in un altro modo quello stesso rapporto di fede che io vivo in altra maniera. Nello stesso tempo, nella visione buddista la separazione fra io e tu è convenzionale, utile nella vita di tutti i giorni, ma non sussiste nella vita di fede perché laltro è quella realtà di vita che vive la stessa identica realtà di vita universale che vivo io. Laltro semplicemente dice "me", in un altro modo da come lo dico io; ma laltro è parte di me, è il mio volto con altra sembianza. Su questa ambivalenza, che non è un dualismo, si gioca il rapporto con laltro che riposa su una fede di fondo di identità e che poi si arricchisce nelle differenze e che, credo, è parte integrante di qualunque cammino religioso.
Brunetto Salvarani
Mi pare che quanto ha detto Jiso costituisca un ottimo punto di vista sul tema dell'altro, dell'alterità. Per la verità trovo questa domanda molto difficile, perché qui si corre il rischio di scadere nelle formule retoriche: in ogni caso, per me l'altro rappresenta le donne e gli uomini che testimoniano ciò che io non sono (penso non tanto al mio "io" in quanto cattolico, ma al mio "io" in quanto persona). Quindi, gli altri sono la rivelazione di ciò che non mi è stato dato, e ci suggeriscono l'ipotesi che possa esistere una comunità vasta, un'apertura che va molto al di là di questo minuscolo frammento di esperienza umana che è la vita individuale di ciascuno di noi. Direi anche: gli altri sono santi, e racchiudono un germe di santità, perché la Bibbia racconta che l'uomo è santo così come Dio è santo. Per cercare di spiegare una simile considerazione mi piace ricordare un aneddoto ebraico di oggi, che vede quale protagonista un poeta israeliano, Yehuda Amichai, e fa più o meno così: "Un giorno Yehuda Amichai, il grande poeta di Gerusalemme, stava seduto con due panieri di frutta sui gradini accanto alla porta della Cittadella. Ad un certo punto, egli sentì una guida turistica che diceva: <Lo vedete quell'uomo con i panieri? Proprio a destra della sua testa c'è un arco dell'epoca romana. Proprio a destra della sua testa>. Scrive Amichai: Io mi dissi: la redenzione verrà soltanto se la loro guida dice: <Vedete quell'arco dell'epoca romana? Non è importante; ma lì vicino, un po' più in basso a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta e la verdura per la sua famiglia>". Da parte mia, mi piace pensare che in questo acquisto della frutta e della verdura per la propria famiglia ci sia il germe della santità dell'altro per me (al contrario di quanto sosteneva il filosofo Sartre, per il quale gli altri sarebbero l'inferno per ciascuno di noi) .
Certo, personalmente sono sempre più convinto che occorrerà fare un salto di qualità rispetto al modello di dialogo interreligioso che andava per la maggiore fino a qualche anno fa, quando si pensava che esso sarebbe stato favorito da una sorta di "riduzione" della propria identità religiosa. Anzi, vorrei dire che qualsiasi dialogo implica necessariamente degli interlocutori ben consapevoli della propria identità. Come ha colto felicemente il teologo latinoamericano Gustavo Gutierrez in un articolo comparso alcuni anni or sono su "Il regno", la grande sfida attuale consiste "nel sapere portare avanti il dialogo senza nascondere o sfumare le verità in cui crediamo e i caratteri che le connotano... Ma è anche necessario avere una grande capacità di ascolto e di apertura a ciò che il Signore può dirci a partire da altre angolazioni umane e culturali. Ricorrendo solo apparentemente a un paradosso, potremmo dire che la capacità di ascoltare gli altri è tanto maggiore quanto più fermo è il nostro convincimento e più trasparente la nostra identità cristiana". Il tema strategico, anzi, per ogni fede religiosa sarà la disponibilità a ripensare radicalmente la propria identità, accettando un'idea aperta, pluralistica ed itinerante della verità.
Hamza Roberto Piccardo
Un detto santo che racconta uno dei discorsi tra Dio e Muhammad (pace e benedizioni su di lui!) che non sono compresi nel Corano e che vengono riportati dalla tradizione, dice che il cuore di un credente è più caro ad Allah di tutto il Santuario della Mecca, quindi della Casa di Dio, di tutto quello che vi è attorno e di quello che significa. E qui mi collego, come ha fatto Brunetto al valore della persona. A volte questo altro sembra che sia rappresentato da me stesso perché lunità assoluta dei comportamenti, delle intenzioni appartiene soltanto a Dio e noi siamo spesso altri e ci comportiamo in maniera diversa. Allora a partire da questa mia condizione di essere altro, penso allaltro cristiano, allambiente in cui vivo, ai miei parenti, ai miei amici. Laltro buddista mi ricorda quel mio amico che ha fatto il viaggio con me nel deserto e che adesso vive a Pomaia in una comunità buddhista tibetana e rappresenta per me un segno: abbiamo fatto le stesse esperienze e poi ognuno ha preso la sua via e ci sentiamo spesso. Sicuramente con laltro ebreo il problema è molto più complesso, non tanto da un punto di vista dottrinale, ma da un punto di vista politico: la presenza dello Stato dIsraele ha creato davvero una rottura difficile da sanare. Tutto quello che noi ereditiamo anche del vissuto recente dei nostri confratelli ci crea delle difficoltà nei rapporti con loro.
Gli incontri di dialogo interreligioso a cui da anni ormai prendo parte stanno modificando il mio atteggiamento nei confronti dellaltro, del diverso. Tornare alla religione dopo un periodo di negazione di qualsiasi valore assoluto, di relativismo totale, pensando che ogni cosa doveva fare i conti con me stesso e non che io dovevo fare i conti con le cose fuori da me, tornare alla religione dicevo può portare facilmente ad una situazione di chiusura mentale. Noi dobbiamo ringraziare veramente i nostri fratelli cristiani per questo loro continuo sforzo che ci ha costretti a venire fuori dalle nostre chiusure e ad obbedire a quello che Dio ci ordina. Ci sono dei versetti del Corano che dicono: "dialoga con le belle maniere con la gente della scrittura", oppure "crediamo a quello che è sceso su di voi e a quello che è sceso su di noi" e ancora " i più prossimi allamore per i credenti sono quelli che dicono " In verità siamo nazareni" perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia". Quindi come musulmani stiamo compiendo un percorso notevole, con la preoccupazione di rimanere però esattamente ciò che siamo nel nostro profondo. Come diceva Salvarani, il dialogo si stabilisce partendo dalla consapevolezza della propria identità: qui non si tratta di fare del sincretismo, ma di confrontarci tra diversi, tenendo sempre presente lunico importante riferimento per tutti noi che è il nostro Signore Iddio, creatore di tutto quanto.
Terza domanda
Che cosa le diverse comunità di fede offrono alla società italiana, che cosa propongono, qual è il tratto che caratterizza la loro offerta culturale, e che cosa chiedono alla società italiana?
Brunetto Salvarani
Io credo che ci sia una cosa importante che la chiesa cattolica dovrebbe fare in Italia, una cosa semplice e assai complessa allo stesso tempo, vale a dire accettare la presente stagione di definitiva fine del regime di cristianità. Di fatto, ancor oggi la mia chiesa si auto-percepisce purtroppo come se l'Italia fosse ancora uno stato cattolico, dove ci sono anche delle "minoranze" i cosiddetti "acattolici" (che terribile terminologia!), i quali per essere legittimati devono faticosamente "mendicare" delle apposite intese con l'autorità politica. Quello che auspico, cioè, è che prendiamo sul serio quanto ha detto il cardinal Martini nell'ultima omelia di Sant'Ambrogio: che davvero questa società è oggi definitivamente laica, multireligiosa, pluralista, e che all'interno di un simile scenario il cattolicesimo dovrebbe finalmente riprendere -per dir così- a fare il proprio mestiere, quello di essere evangelicamente sale e lievito, senza pretendere di rendere l'impasto o solo sale o solo lievito. Mi pare che, in tal senso, questo sia percepibile come un momento importantissimo, un'occasione propizia e non una privazione, o addirittura una disgrazia! Evangelicamente si direbbe un "kairòs", la stagione opportuna per la salvezza, in cui possiamo davvero riprendere a ripensare i modelli comunitari alla luce della tradizione della chiesa primitiva: alla luce della Didachè, della Lettera a Diogneto, degli Atti degli Apostoli, di testi composti da gente che prendeva sul serio la fraternità, l'agàpe, il rapporto con gli altri affrontati senza dover per forza "inglobare" tutto e tutti. Vorrei sottolineare come una simile prospettiva è di eccezionale rilevanza! C'è, ad esempio, una bellissima lettera che troviamo al capitolo 29 del libro biblico del profeta Geremia, la lettera agli esiliati di Babilonia, in cui gli ebrei deportati in esilio vengono incoraggiati a moltiplicarsi "lì", a piantare alberi "lì", a sposarsi "lì", vale a dire nella città nemica per eccellenza. Penso, in altri termini, che oggi noi come cattolici dovremmo radicarci sempre meglio nel tessuto dell'attuale società e nello stesso tempo imparare a dire, sobriamente: "non so". In questa direzione, un ulteriore insegnamento ci viene ancora dai nostri fratelli ebrei. Il Talmud raccomanda, infatti: "Insegna alla tua lingua a dire <Non so>, per non esser preso per mentitore". Noi cattolici, invece, abbiamo troppo spesso la sensazione di dover esser ritenuti coloro che dicono sempre l'ultima parola, quella definitiva e quella giusta. O salta questo meccanismo diabolico e infernale o ritengo che avremo ben poco da offrire alla società italiana del prossimo millennio....
Hamza Roberto Piccardo:
"Optime hic manebimus" disse Cicerone. E questa affermazione può essere riferita anche allinstallarsi in Italia dellIslàm. La prima cosa che sentiamo di poter offrire allItalia è la nostra tradizione ortodossa. Siamo convinti di essere portatori di un messaggio che si è conservato in maniera integra attraverso delle categorie scientifiche, verificabili, sia nella trasmissione del Corano che nella trasmissione del corpus degli ahadith, quella che noi chiamiamo la Sunna, la tradizione, che è allo stesso tempo commento e interpretazione autentica del Corano. Questa tradizione ortodossa la possiamo offrire a tutta la società.
La seconda cosa che vogliamo offrire è un concetto della giurisprudenza religiosa evolutiva senza perdere il contatto con i principi di fondo. Infatti abbiamo una sharia, che è la legge islamica, ferma, e il fiqh, cioè la giurisprudenza, linterpretazione, lapplicazione della legge che è evolutiva grazie al pensiero di quattro grandi scuole di diritto islamico, che continuano a svilupparsi nel tempo e in particolare in Occidente, dove la novità del pensiero islamico sfugge agli interessi delle potenze che hanno fatto spesso della religione un istrumentum regni. In Occidente i sapienti musulmani, spesso esuli dai loro stessi paesi, possono esprimersi con libertà dando interpretazioni nuove consone ai tempi.
La terza cosa che possiamo offrire a questa società fondamentalmente relativista è unetica personale rigorosa, letica dellessere, letica del dovere, piuttosto che letica dei diritti. Noi pensiamo che sia più opportuno parlare dei doveri delluomo, piuttosto che dei suoi diritti. Il tuo diritto sussiste nel momento in cui io compio il mio dovere; il mio dovere nei confronti di Dio fa sì che io ottenga da Dio quello che Lui mi ha promesso per Sua volontà e non per Suo dovere. Unetica dei doveri, di sacrificio, di impegno continuo in quanto, se i cinque pilastri su cui si fonda lIslàm sono: lattestazione di fede, la preghiera, il pagamento della decima, il digiuno (nel mese di ramadan) e il pellegrinaggio, si dice comunemente che il sesto sia quello di comandare il bene e di condannare il male per cui il profeta Muhammad (pace e benedizioni su lui!) ha detto : "Se vedi una cosa storta raddrizzala con la tua mano, se non puoi farlo con la mano fallo almeno con la voce, e se non puoi farlo nemmeno con la voce fallo almeno con lintenzione del cuore: questo è il grado più basso della fede". E conclude dicendo: "Se non farete questo sarete comandanti dai peggiori fra di voi e a nulla vi servirà chiedere perdono a Dio". Per cui limpegno continuo, puntuale del musulmano nei confronti del bene è quello che lui può offrire alla comunità in cui vive. In cambio, però, il musulmano cosa chiede? Chiede la giustizia: chiede di essere trattato come le altre comunità, chiede di avere i diritti civili che vengono riconosciuti alle altre comunità; chiede un realismo culturale che non veda i musulmani come invasori, ma come latori di una ricchezza economica, demografica, culturale per la società italiana. Vogliamo semplicemente vivere in questa società con la certezza dei nostri diritti e con la certezza dei nostri doveri. Non sono cose facili: i diritti vengono enunciati e poi ci vuole molto tempo a raggiungerli e ottenerli. Abbiamo il nostro percorso come hanno fatto altre comunità, con la differenza che la nostra si viene a trovare in un periodo storico in cui i tempi sono tutti più brevi, non si sa bene perché, forse perché natura in finis velocior? Dicono che la natura alla fine dei suoi processi accelera: questa è una delle ragioni dei millenaristi, di coloro che sostengono che il mondo sta per finire. Può darsi. Iddio è più sapiente. È comunque sicuro che la nostra presenza è stata così repentina e laumento è stato così veloce, che i processi di adattamento a volte stridono e sono un po difficili, ce ne rendiamo conto.
E laltra cosa che vogliamo offrire e che ricordiamo sempre ai nostri fratelli di adottare nei confronti della società che li ospita è la pazienza, la perseveranza poiché quello che da Dio ci aspettiamo ci verrà sicuramente.
Jiso Forzani
Innanzitutto cè da fare una premessa: quando si dice tradizione buddista si usano delle categorie di valutazione tipicamente occidentali che non sono applicabili al fenomeno buddista. Buddismo è una parola occidentale che in oriente non esiste, non esiste una fede dottrinale in cui tutti i buddisti si riconoscono. Ecco la ragione della nascita di tanti fraintendimenti, di tanti dubbi. Cè chi si chiede se il buddismo sia una religione, piuttosto che una filosofia. La parola religione è stata tradotta/introdotta in giapponese solo nel 1870, e lo stesso è per la parola filosofia: prima non esistevano. Anche noi, come qualsiasi religione autentica, siamo segno di qualcosa di universale. Il confronto con questa religiosità è veramente complicato in quanto il linguaggio orientale si basa su categorie di pensiero completamente diverse dalle nostre.
L'altra cosa è che tutte le tradizioni religiose bibliche sono escatologiche, mentre il buddismo non lo è. La testimonianza del buddista sarà sempre quella della modalità in cui egli vive la realtà presente in questo momento, la quale in se stessa è compresa nella fede e nellesperienza contemporaneamente, come manifestazione ontologica. È un divenire che testimonia un essere; quindi non è orientata a qualche cosa in particolare, non è finalizzata a un qualche cosa con cui tutti noi, prima o poi, faremo i conti.
Quarta domanda
Nellipotesi del trasferimento in unisola deserta in cui non cè nulla e non ci si può procurare nulla, quali sono i 3 oggetti che vi portereste dietro?
Hamza Roberto Picardo.
Una copia del Corano, un tasbish, che sarebbe una coroncina di 99 grani più uno, con cui si ricorda il nome di Dio e si ricordano le sue caratteristiche, un siwach il bastoncino con cui si puliscono i denti che è bene usare sempre in maniera tale da ricordare che il rapporto tra il corpo e lo spirito deve essere sempre un rapporto pulito.
Jiso Forzani.
Io mi porterei un coltello multiuso con molte lame, un cuscino e la terza cosa.... so che cos'è, ma non so dire..."
Brunetto Salvarani "Rammento che quando il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, martire antinazista, venne assassinato, nella sua cella furono trovati due volumi, la Bibbia e la raccolta delle poesie di Goethe: il breviario religioso e il breviario laico, potremmo dire. Da parte mia, alla stessa stregua, vorrei portare con me la Bibbia, l'opera omnia del poeta Giuseppe Ungaretti Vita d'un uomo e una musicassetta con le migliori canzoni dei Giganti... in particolare Una ragazza in due.
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