ATTI

TAVOLA ROTONDA
Il CEM, il limite e la sobrietà.

 

Moderatore:
Brunetto Salvarani
(introduzione)

Relatori:
p. Domenico Milani
(prima parte seconda parte)
Rita Vittori
(prima parte seconda parte)
Gianni Caligaris
(prima parte seconda parte)

 


Brunetto Salvarani:
Ho l'onore di presiedere la tavola rotonda che avevamo deciso in chiusura del convegno di Assisi dello scorso anno, riflettendo che poteva risultare utile un momento in cui il CEM avesse l'occasione da una parte di autopresentarsi, dall'altra di riflettere a voce alta sui temi proposti durante il Convegno. Questa è una cosa che i primi cristiani chiamavano con un termine difficile "mistagogia" cioè il tentativo di riprendere successivamente dei temi. In questo caso si tratta di riprendere i temi lanciati dal Prof. Sachs, ma non soltanto quelli: il tema del limite, della sobrietà, ecc. Per spiegare cosa faremo stamattina mi rifaccio ad una storiella ebraica molto nota, che dedico a questa tavola rotonda e che dà il senso al raccontare le storie.
Ad un rabbi il cui nonno era stato discepolo del Ba'al Shem, il fondatore del chassidismo fu chiesto di raccontare una storia. "Una storia, egli disse, va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto". E raccontò: "Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, allora raccontò come il santo Ba'al Shem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò. E il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì(!). Così vanno raccontate le storie".
Parto da qui perché questo tema che ci ha accompagnato negli ultimi anni di un narrare che può avere anche una funzione terapeutica, vorrei applicarlo anche stamattina alla storia del CEM che in qualche modo può essere una storia di aiuto e terapeutica per qualcuno, per qualcosa o per qualche istituzione un po' sclerotizzata. Ecco perché attorno a me vedete tre amici, in realtà, tre colonne portanti del CEM ormai da parecchi anni, che ci aiuteranno in questa riflessione con due giri di interventi molto brevi e dopo il secondo giro di interventi speriamo che ci sia la possibilità di scambiare ulteriormente delle idee con voi.
Il primo giro è dedicato soprattutto ad una sorta di memoria storica del CEM che però ognuno gestirà in maniera personale, il secondo sarà un tentativo di tradurre le idee che Sachs ci ha presentato relative al tema del limite e della sobrietà.

p. Domenico Milani
Il CEM, ovvero la favola che non finirà, se non il giorno in cui nessuno avrà più voglia di raccontarla.
Questa prima parte della storia del CEM verrà tracciata per date che rappresentano le tappe che hanno caratterizzato questo periodo.

1942 - Il Prof. Gesualdo Nosengo, allora presidente dell'Unione Cattolica degli Insegnanti Medi (U.C.I.M.) viene a Parma a una conferenza alla quale partecipano tre confratelli: Augusto Luca, Mario Sguazzi e Alessandro Patacconi. Usciti dalla conferenza si chiedono lungo la strada mentre raggiungevano l'Istituto: "Perché non creare qualche cosa che interessi la missione e la scuola?". I tre, che poi si fregiarono del titolo "i re magi", iniziarono il CEM e la sigla C.E.M. era interpretata così: Centro di Educazione Missionaria. Il CEM comincia a pubblicare la sua prima rivista, un foglietto di otto pagine, che si chiamava Didattica Missionaria e che fu affiancata subito dalla pubblicazione di quattro testi il cui autore fu Don Silvio Riva, ad integrazione dell'insegnamento della religione a scuola, tradizionalmente trasmesso dal catechismo di Pio X.

1953 - Padre Augusto Luca, primo Direttore del CEM, parte per il Giappone e pochi mesi dopo anche Sandro Danieli parte per il Giappone e il sottoscritto è designato in quell'anno come Direttore del CEM. Inizio quasi immediatamente una collaborazione con il gruppo "La Scuola" di Brescia che allora si chiamava come la sua rivista più importante di allora, ma lo è anche oggi, Scuola Italiana Moderna. Ho seguito i convegni estivi, che chiamavano i "pedagogium", organizzati da Scuola Italiana Moderna, e ho avuto l'occasione di incontrare assemblee di tre, quattro, cinquecento maestri.

1954 - Entrano a far parte del CEM due giovanissimi collaboratori: Bruno Rossi e Anna Panico. Li ho reclutati rivolgendomi alla maestra che faceva il tirocinio a coloro che terminavano le scuole magistrali, con il diploma, dicendo "devi indicarmi i due migliori della tua 'covata' di quest'anno". Bruno Rossi e Anna Panico cominciano il lavoro assieme a me. Siamo in tre.

1955 - La prima svolta. Su insistenza del Prof. Vittorino Chizzolini, Direttore di Scuola Italiana Moderna, do l'esame da maestro, ero già prete, e mi iscrivo insieme a Bruno Rossi e ad Anna Panico al Magistero a Genova. Ma allora la svolta consiste in che cosa? Chizzolini diceva: "Ci sono due modi di parlare delle missioni alla scuola, o tu continui a parlare della storia di grandi missionari che sono stati anche grandi italiani all'estero ecc. ecc. , oppure tu ti inserisci in un discorso più specifico, dove la pedagogia e la psicologia entrino di diritto. Ecco che il CEM comincia a lasciare un po' la direttiva Centro di Educazione Missionaria con i sussidi catechistici, per avviarsi ad un altro tipo di sussidio che fu tradotto nel rinnovamento della rivista "Didattica missionaria", accompagnata e affiancata dalle schede didattiche del CEM. Era questa integrazione che portava il mondo al di fuori dell'ambito italiano nella scuola italiana: fu il primo tentativo di intercultura. Su queste schede del CEM è stata fatta recentemente una bellissima tesi di laurea.

1956 - Ha luogo a Parma il secondo convegno nazionale del CEM con la partecipazione di Giorgio La Pira come oratore principale. Iniziammo ad organizzare il CEM in tutta Italia con delle figure che sono rimaste tipiche nel nostro ricordo: le incaricate e gli incaricati CEM. In quello stesso anno è avvenuto un altro famigerato fatto: il sottoscritto si trova all'indirizzo di Verbania perché una classe quarta sta finendo l'anno scolastico, là incontra una maestra che si chiama Daria Bertolini. Le propongo di lasciare la scuola e di venire a Parma a lavorare con noi. Quella folle, lascia la scuola e viene a Parma. Siamo dunque in quattro. Del resto chi conosce la storia delle antiche edizioni del CEM si ricorderà di quanti libri delle collane siano stati firmati da Daria Bertolini. Nel 1959 mi laureo in pedagogia e, tornato da Genova con la mia laurea, mi presento dal mio superiore generale; proprio quando mi sentivo pronto a lavorare per il CEM, egli mi dice: "Benissimo, parti per l'Africa". (fine prima parte)

Rita Vittori:
Sono qui in qualità di "anima femminile del CEM. Vorrei fare una breve memoria storica, un volo d'uccello su che cosa ha significato per il CEM educare alla differenza (in questi anni è cambiato il significato che noi abbiamo attribuito a questa grande finalità).

  1. Una caratteristica del gruppo che lavora dietro alla rivista e al convegno è l'interculturalità. Siamo persone che appartengono a gruppi ideologici completamente diversi. Questa è una caratteristica che forse non viene esplicitata a sufficienza. Il CEM come luogo di interculturalità, presuppone anche grossi conflitti da cui scaturiscono delle idee che sono nuove. Prima di arrivare al convegno e alla rivista abbiamo sulla pelle il dolore e la bellezza dell'interculturalità. Il lavoro che facciamo è un lavoro faticoso, ma bello. E quello che ci tiene insieme è proprio questa forza del discutere, a volte contrapporsi, però uscire dalle riunioni che facciamo con la sensazione e la sicurezza di essere comunque mutati da queste esperienze.
  2. Abbiamo fatto un cammino: educare alla differenza anni fa significava soprattutto essere attenti agli altri, alle culture che dovevamo ospitare, all'altro che stava arrivando; quindi un'apertura, un'attenzione, una curiosità dove, a volte, abbiamo anche esaltato la diversità dell'altro. C'erano anni in cui si diceva, diverso è bello, è piacevole. Ma siccome siamo poi persone che lavorano quotidianamente con gli altri, ci siamo resi conto che educare alla differenza, alla diversità, alla mondialità passava attraverso il dolore, la fatica. E quindi abbiamo cominciato a mutare, trasformare, arricchire questo significato. Abbiamo incominciato a interrogarci e a dire che gli altri forse li possiamo conoscere solo nel momento in cui abbiamo una relazione con loro. Dobbiamo interrogarci su chi siamo, cosa stiamo facendo e soprattutto su quali sono quelle dinamiche transazionali che sono molto sottili e che rischiano di farci diventare degli stranieri in casa nostra. E il tentativo in questi due o tre anni di guardare globale e poi essere attenti al piccolo è proprio questo tentativo di guardarci come se fossimo dalla luna, di darci uno sguardo esterno perché nel processo di deculturazione e di omogeneizzazione ci siamo anche noi.

Gianni Caligaris:
Ascoltando e riflettendo su ciò che ha detto ieri Wolfgang Sachs mi sono reso conto come il CEM, nella concettualizzazione della ricerca intorno al limite, stia coronando un percorso, abbia raggiunto una tappa, un punto fermo da cui si può ripartire.

Solo scorrendo i titoli degli ultimi anni: "L'irruzione dell'altro", quindi l'organizzazione verso qualcuno che passa ed i limiti ed i confini che delimitano casa nostra; "Il nomade e la bussola. Il viaggio metafora della relazione educativa", "Ricordare il futuro. Memoria, identità, progetto"; "Oltre la siepe. Educare alla mondialità nell'era della globalizzazione"; e ascoltando Sachs e pensando alle diverse angolazioni sulle quali si può ragionare intorno al limite, mi sembrava proprio che queste riflessioni, questi pensieri contenessero in sé la storia della ricerca, della curiosità, del lavoro, degli sforzi, delle dialettiche e delle contraddizioni che il lavoro del CEM ha portato avanti in questi anni, sia con la rivista, con il gruppo, ma credo soprattutto con l'apporto e la creatività dei partecipanti ai vari convegni. Quindi io dirò qualcosa di molto agganciato al tema di questo convegno, al limite, che però mi sembra significativo proprio perché contiene in sé molti anni, molto lavoro, molto sudore del CEM e dei suoi convegnisti. Voglio proporre qualche stimolo intorno a questa parola del limite e credo al bisogno di metterci nei suoi confronti, cogliendone tutte le sfumature dialettiche all'esterno e all'interno di se stessa. Per esempio io credo che ci sia bisogno di lavorare nella dialettica fra limite e confine. La globalizzazione può essere fatta in tanti modi, ma è comunque un processo in cui i confini piano piano si annullano. Credo che l'abbattimento, l'annullamento dei confini possa essere salutato con una vittoria e con una ricerca. Insomma deve portare con sé la consapevolezza che se vogliamo veramente che il confine sia uno solo - quello dell'arancia blu di cui parlava Sachs - se vogliamo veramente che la risposta ad ogni domanda stupida sia quella di Einstein "razza umana", dobbiamo vivere quest'unico confine riuscendo a riconoscere tutta una serie di forti limiti e quindi dobbiamo ristrutturare il nostro ruolo e i nostri diritti all'interno di quest'unico confine. Dobbiamo declinare tutta una serie di situazioni in cui abbattere i confini comporta la sfida di un accelerare insieme la corsa verso la mancanza del limite non tanto solo verso l'illimitatezza che è una categoria astratta, quanto verso la sfrenatezza che è una categoria molto concreta che ci portiamo appresso quando siamo non curanti del bisogno dei limiti. E allora occorrerà ragionare sullo sviluppo che dev'essere senza confini ma con molti limiti, con il suo limite, sul mercato che dev'essere senza confini ma con il suo limite, su una comunicazione che non deve conoscere confini ma che deve conoscere dei limiti. Bisognerà ragionare sulla diffusione delle culture, delle religioni, del pensiero, ancora una volta senza confini ma con grandi limiti, per non andare verso il pensiero unico. Bisognerà pensare alla solidarietà che deve essere senza confini ma che deve conoscere dei limiti, perché non abbiamo bisogno di popoli tutori e popoli tutelati ma di popoli che insieme cercano un futuro. Io credo che questa dialettica tra il confine che è un limite per certi versi negativo in quanto racchiude e il limite che invece è la autoridefinizione consapevole e responsabile dei nostri spazi di diritto e di consumo, sia una delle sfide forti che viene dalla riflessione sul limite e che però per certi versi sia anche un po' il glutine di ciò che nel lavoro di tanti anni abbiamo lentamente costruito nelle nostre ricerche, nelle nostre consapevolezze.

Ma d'altro canto limite non è sicuramente una categoria assoluta, ci sono anche molti limiti da abbattere. I limiti che abbiamo maturato nella nostra crescita, nella nostra maturità, nel nostro diventare adulti, il limite alla curiosità, alla speranza, al sogno, all'utopia che ci siamo autoimposti e che magari senza volerlo imponiamo anche ai più giovani. Questi sono limiti sui quali credo dobbiamo riflettere per ridurre il più possibile l'impatto sulla volontà, sulla facoltà di creare o di avere delle idee, di cercare di strappare la gioia ai giorni futuri.

Un'altra dialettica che credo sia molto importante all'interno del ragionamento sul limite, e questa me la sento addosso da molti ragionamenti di molti anni all'interno delle nostre riflessioni, è quella tra due tipi di limite:

  1. il limite dell'autoregolamentazione, dell'assunzione di responsabilità, il darsi un limite rispetto a tutta una serie di comportamenti, di azioni;
  2. il limite che è invece un'eteroregolamentazione, è il limite che soffre colui che vede limitate le proprie chances, le proprie possibilità dalla sfrenatezza altrui. È quel tipo di limite nel quale le speranze si bruciano nei poveri falò dei villaggi e delle favelas. Ieri Sachs ci chiedeva se eravamo capaci di giustizia, qual è il colore della giustizia; ci si chiede: "Saremo capaci di futuro?". Questa domanda sulla nostra capacità di avere un futuro deve restare sorella siamese dell'altra domanda rispetto a tutti quelli che già oggi un futuro non ce l'hanno e che è poi il discorso che faceva Sachs sul limite alto e sul limite basso all'interno del quale c'è la giustizia, al di sotto e al di sopra dei quali giustizia e democrazia non sono più possibili, non sono più concepibili.

Vi lascio con un racconto: un racconto di dieci parole fra le più strazianti che abbia mai letto ed è di Eduardo Galeano. Narra di un medico in un ospedale del Salvador tra bambini abbandonati, che la sera di Natale sta per andare a casa dopo un turno lunghissimo e sente nel corridoio dietro di lui dei "passi di cotone". Si volta e vede un bambino con gli occhi già grandi, già consumato dalla malattia, che gli dice: "Senti, dillo& dillo& a qualcuno che io sto qui". Mi sembra che nella disperazione del bambino che capisce il proprio limite - che è quello della solitudine, di non aver nessuno a cui far sapere la propria condizione -, ma che comunque non accetta questo limite, ci sia una grande indicazione di un limite che va assolutamente sfondato il limite basso dell'ascolto, il limite basso dei decibel oltre i quali non riusciamo a sentire.

Allora vi lascio con questa suggestione: uno dei limiti che sicuramente dobbiamo sfondare è quello della capacità, - intanto che pensiamo alle proiezioni verso i limiti alti, al bisogno di limitare noi stessi, al bisogno di trovare queste nuove proposizioni - verso il basso. Il bisogno di sfondare verso il basso il limite dell'udibilità, il limite dell'ascolto perché tutti i "passi di cotone" che passano per il mondo abbiano una risposta all'interno di tutti gli interrogativi che ci poniamo.

p. Domenico Milani:
Secondo capitolo della favola del CEM, narrato come la favola che non finirà, se non nel giorno in cui nessuno avrà più voglia di raccontarla.

1986. Dopo 26 anni torno dall'Africa e mi hanno rimesso alla direzione del CEM e ho avuto la fortuna di incontrarmi con un gruppo di collaboratori che chiamerò, in sintesi, il gruppo di Roma e il gruppo di Piacenza. Il gruppo di Roma era condotto dal Prof. Antonio Nanni, già Vicedirettore del CEM, che conobbi allora e il gruppo di Piacenza era condotto da Daniele Novara. Poi le vicende fanno sì che Daniele Novara fondi il Centro Psicopedagogico per la Pace a Piacenza. Il CEM nel frattempo ha cambiato nome: non è più il Centro di Educazione Missionaria, ma il Centro di Educazione alla Mondialità. Questa apertura era già stata sentita dal Prof. Chizzolini, il quale vedeva nel termine "missionario" il rischio che, andando io a parlare a degli insegnanti come professore di filosofia e pedagogia, potesse suonare restrittivo. Tanto più che un'aria di un certo laicismo sano affiorava già allora, benché soprattutto nella prima epoca il CEM fosse indirizzato alle scuole elementari e gli abbonati fossero quasi tutti di matrice cristiana. Intanto hanno luogo in questi anni dei convegni CEM che considero delle tappe:

1987 a Sassone - Ciampino: "L'educazione sommersa si fa proposta", come sviluppo di quello dell'anno prima che aveva avuto il titolo: "Liberare l'educazione sommersa";

1988: ad Arezzo: "Convivialità, un futuro per l'educazione" - questo termine è arrivato a me tramite Nanni -;

1989: a Macerata: "La terra e l'uomo. Nuovi alfabeti per l'educazione.";

1990: ad Assisi: "Il volto dell'altro";

1991: ad Assisi: "L'irruzione dell'altro";

1992: ad Assisi: "Non sono parole.";

1993: ad Assisi: "Ricordare il futuro.";

1994: ad Assisi: "Sulle strade del desiderio.";

1995: ad Assisi: "Una città per narrare";

1996: ad Assisi: "Il nomade e la bussola";

1997: ad Assisi: "Oltre la siepe";

ed eccoci quest'anno a Città di Castello a trattare del limite e della educazione alla sobrietà.

In questi 12 anni di lavoro dopo il mio ritorno dall'Africa, ho avuto anche la fortuna di avere attorno a me un'altra vasta rete di collaboratori che costituiscono un po' il nucleo portante del CEM, il Comitato di Direzione, il Comitato di Redazione, la Consulta Nazionale e il Gruppo degli Animatori e dei Conduttori dei laboratori del CEM. Penso di poter dire a p. Arnaldo De Vidi e anche a voi che vale la pena continuare la narrazione della storia del CEM. Io ho cercato di seguire questa politica: "Far fare e lasciar fare a coloro che sanno fare".

Rita Vittori:
Riprendendo il tema del limite, vorrei ora enucleare alcuni concetti più concreti, tratti anche dalla mia esperienza di insegnante.

Tutti i convegni CEM hanno puntato sulla trasformazione di un modo di relazionarsi, ma anche di fare scuola, di stare con i ragazzi in modo diverso, meno intellettuale, dove il vero centro di potere fosse il gruppo. L'obiettivo di questi laboratori è non solo dare dei contributi, ma soprattutto offrire degli esempi, delle metodologie che possono essere poi recuperate, ritrasformate, ma dove il messaggio è che le cose si fanno insieme. Non c'è chi sa di più o chi sa di meno, ma c'è qualcuno che è più avanti rispetto a un altro e ha il ruolo di guida, di accompagnamento.
Quali sono dal nostro punto di vista i concetti forti su cui occorre assolutamente lavorare?

  1. Innanzitutto il concetto di empatia: in una cultura in cui la sovrabbondanza e la mondializzazione stanno rischiando di cancellare i limiti e i confini piccoli, si rischia di trovarsi delle generazioni che non sono più in grado di mettersi nei panni degli altri. Proprio perché il grande, l'infinito, crea ansia e incertezza un modo di difendersi è il rinchiudersi nel proprio piccolo con il rischio però che il piccolo sia delimitato da muri e palizzate. Un grosso invito, per chiunque lavori in questi ambiti, è di puntare sul concetto di empatia proprio perché abbiamo bisogno di recuperare oltre al grande anche i legami con le piccole comunità, la classe, il quartiere, i gruppi di appartenenza, il ricucire questi legami che stanno via via diventando sempre più invisibili. Infatti il rischio è che fra dieci anni preferiremo parlarci via internet e non parlare più con le persone che abbiamo accanto nei luoghi di lavoro, dove sappiamo che risulta più difficile stare insieme. È molto più facile mandarsi dei fax che non convivere con il collega che non la pensa come noi; vediamo i bambini stessi in classe che non sono più in grado neanche di litigare.
  2. Altro concetto importante è l'aiutare chi sta con noi a ritrovare un significato della vita, un significato proprio; e occorre creare delle condizioni, dei luoghi in cui questi significati possano essere narrati e condivisi. Lo spazio della narrazione offre una opportunità. Allora, - pensando anche alla cultura della lentezza per chi lavora nella scuola - diamo meno contenuti ai ragazzi e facciamo soprattutto in modo che questi alunni possano "orientarsi" in questa illimitatezza che li confonde, li fa di-sperare, fa perdere la loro speranza per il futuro. Come educatori abbiamo l'opportunità e possiamo crearci gli spazi (malgrado gli input che ci arrivano dal Ministero o altro) per creare, come dire, degli spot a scuola. &. Questo penso sia una grossa speranza che abbiamo e che dobbiamo, se siamo qua, a coloro che accompagniamo sulla strada della vita.
  3. L'altro concetto, l'altro invito è: recuperiamo la trasparenza della parola. In un'epoca di sfrenatezza dove da destra a sinistra si dicono gli stessi concetti e dove la confusione non è più creativa ma confonde - il caos diventa disorganizzazione e non creatività - aiutiamo coloro che accompagniamo a recuperare anche il significato delle parole, recuperandolo innanzitutto noi. Ci sono delle parole che ormai vengono dette "pour parler", recuperiamo il valore del silenzio e delle pause, a scuola, ma anche nella nostra vita.

E per finire mi piace leggere una massima tratta dal libro più antico del mondo che è l'insegnamento del saggio egizio Phtaotep del buon uso della parola (è bene recuperare anche dei testi della tradizione in modo che le parole siano come dei sassi, e non siano solamente delle cose da consumare). "Se sei un uomo eccellente e di cui ci si fida, che siede nel consiglio del suo signore, raduna ogni cuore verso la perfezione. Sii silenzioso - il silenzio è più utile che la chiacchiera -, parla soltanto quando sai che porterai una soluzione. Dev'essere un eccellente artigiano colui che parla del consiglio, parlare è più difficile che ogni altro lavoro".

Gianni Caligaris:
Anch'io penso di dedicare questa seconda parte del mio intervento a buttare un po' di sassi nello stagno rispetto a delle possibili piste di lavoro, comunque a degli sviluppi e degli stimoli che abbiamo ricevuto tra ieri e oggi e che magari riceveremo e svilupperemo nei laboratori. Ieri Sachs parlava di estetica della sobrietà, quindi dell'eleganza della proporzione in un mondo che sta perdendo questa coerenza di forme e di linee rispetto alle proprie possibilità. Io mi sentivo di tradurre questa estetica della sobrietà, questa eleganza della proporzione, in un termine forse più connaturato con la mia matrice che è quella della condivisione che ci richiede di recuperare o di fare alcune memorie storiche. Ad esempio di ricordarsi che io sono cresciuto in un ambiente che mi diceva che il superfluo bisogna darlo a chi non ce l'ha. Bisogna ricordare che invece la formulazione originale è che devi condividere con altri ciò che è "super platum", sul piatto, ciò che hai a disposizione per un capriccio della sorte, e non ciò che avanza dopo che ti sei satollato. Questo è un grande recupero di un'estetica, di una proporzione della sobrietà e dell'austerità all'interno del nostro sistema di iperproduzione, di sovraconsumo, di spreco. Un lavoro credo molto difficile, perché chiede a tutti di mettere in discussione anche ciò che fanno gli altri (e quindi un campo delicato, perché credo che in questo nessuno sia maestro ad altri) è quello della ri-definizione degli stili di vita, quindi in qualche modo della ristrutturazione degli obiettivi di vita. Ci si può vicendevolmente aiutare a trovare gli strumenti concettuali con cui capire qual è il proprio obiettivo e quindi qual è il proprio stile di vita, recuperando magari anche qualche pensatore caustico come Bedlem che diceva che "il consumo per essere rispettabile dev'essere spreco, altrimenti non ha senso sociale". O recuperando, magari anche pensieri più antichi come Laotze che "se hai due soldi, con uno compra un pane, ma con l'altro compra un giacinto perché ne ha bisogno il tuo spirito". Ma anche partendo da cose più quotidiane, ad esempio il rapporto con le cose: a volte si pensa che il consumismo, lo spreco, la sfrenatezza e l'insopportabilità, l'intolleranza verso il limite, sia l'attaccamento alle cose: è il contrario! L'attaccamento alle cose si matura nel non sostituirle voracemente, freneticamente: il consumismo è la morte delle cose. E come osserva un pubblicitario intelligentissimo, Falabrino, nel consumismo, nella sostituzione, nell'eutanasia continua delle cose alle quali dunque non riusciamo ad attaccarci, noi scarichiamo le nostre ansie di morte che non riusciamo ad elaborare diversamente. Allora partendo dal nostro rapporto con le cose, dalla nostra intolleranza al limite nell'utilizzo delle cose, forse ci troveremmo a ragionare con la nostra incapacità di convivere con la morte, che è un punto di ragionamento molto lontano rispetto all'inizio, che però ha una storia all'interno delle nostre eccessive velocità.

Vi sono poi delle cose anche molto più pratiche, molto più quotidiane: bilanci di giustizia, ad esempio, e non a caso Sachs ne è un grande amico e collaboratore. È proprio un tentativo culturale e pragmatico di ridefinire il proprio stile di vita, il proprio stile di consumo, il proprio stile di rapporto con le proposte, le lusinghe o quant'altro la società ci pone.

Credo che un altro campo di riflessione sia la necessità di aiutarci a vicenda ad allargare l'ambito della responsabilità. Il mio bisnonno si sentiva molto responsabile verso la sua famiglia; mio nonno si sentiva responsabile verso la sua città, oltre che verso la famiglia; mio padre si sentiva responsabile all'interno della nazione, dello stato: i confini s'allargano. Ora l'arancia blu ci invita a ricordare che la nostra responsabilità va tanto lontano quanto la nostra consapevolezza e che la foto dell'arancia blu ci mette di fronte ad una consapevolezza irrinunciabile: che quello è il confine della nostra responsabilità.

Tutto ciò che oggi si muove all'interno delle riflessioni su un diverso modo di rapportarsi con le sfide, con i pericoli e con i comportamenti all'interno dell'agire economico, ha un diritto di cittadinanza fortissima all'interno dei nostri ragionamenti sul limite, ma anche sulla convivialità, piuttosto che sulla diversità. Quindi tutto ciò che oggi si muove in Italia e nel mondo all'interno della finanza etica, del commercio equo e solidale& sono tutte strumentazioni di revisione critica che si muovono all'interno di un concetto di ridefinizione dei limiti e di ridefinizione dei luoghi e degli spazi. Ci possiamo riagganciare ancora all'anno scorso, a Petrella e alle strategie di resistenza ad un tipo di globalizzazione. E quindi la ridefinizione creativa che "nessuno può insegnare a nessun altro", ma che è solo una indicazione di larga massima di tutte quelle strategie di resistenza che non significano negare la globalizzazione, ma significano invertirne il senso presuppone:

  1. una globalizzazione dal basso, un ragionamento di tutela dei propri diritti che parte dalla tutela dei diritti altrui (per esempio il lavoratore europeo che tutela se stesso partendo dalla tutela dei diritti del lavoratore pakistano, piuttosto che coreano, piuttosto che vietnamita);
  2. la possibilità di portare sangue, sangue forte a tutte quelle microeconomie che sono anche, ma non solo, terzo settore e che costituiscono una delle poche possibilità che l'economia del mondo, l'economia della globalizzazione sia un'economia che cresca anche dal basso e che non venga solamente dalle grandi centrali di potere.

Vorrei chiudere con una suggestione per certi versi poco economica ma che però credo abbia un certo senso all'interno dei richiami di Sachs sul limite e sulla lentezza. Se la velocità o la lentezza di un auto o di un treno sono definibili in qualche modo, è meno definibile qual è il confine della lentezza rispetto a tutta una serie di altri comportamenti di scelta. Allora io ho provato a pensare che forse la lentezza è quella velocità che mi permette di camminare in modo da vedere dove sto mettendo i piedi e quindi che cosa sto rischiando di calpestare, per poter cambiare eventualmente il mio passo. Lentezza è quella velocità che mi permette di camminare senza perdere dei pezzi importanti di me, senza che dalle tasche mi scappino delle cose forti. Io credo che uno dei rischi grossi dell'eccesso della velocità, sia la perdita della memoria. "Ricordare il futuro" un altro dei nostri momenti forti, celebrava in qualche modo il fatto che non c'è futuro senza memoria. Allora rielogiare e scoprire la lentezza credo significhi anche portare un nuovo rispetto, portare un nuovo omaggio al nostro bisogno di memoria senza la quale non riusciremmo più a produrre un futuro significativo. Anche qui, fedele al mio retroterra di ragioniere, vi lascio con un pensiero altrui, di Federico García Lorca: "Chi cammina si intorbida,/ l'acqua corrente non vede le stelle,/ chi cammina dimentica/ e chi si ferma sogna".