ATTI

MOMENTO DELLO SPIRITO
LA GIOIA DEL LIMITE
Il limite non è fallimento

p. Silvio Turazzi

Prendete il mio intervento come momento di amicizia. Partecipo volentieri al Convegno. Sono grato al CEM per il lavoro che da molti anni sta svolgendo nell'ambito dell'educazione e della formazione. Mi unisco a voi come missionario e come compagno di strada. Ci sentiamo molto uniti nel rispetto della storia e dell'identità di ciascuno. Do quello che ho e condivido ciò che ho vissuto, qualcosa della mia vita, come ognuno di noi potrebbe fare questa sera. Penso sia una cosa bella raccontarsi la propria vita.

Sono figlio di una famiglia di contadini del ferrarese, dico questo perché mi piace molto vedere come ognuno di noi fa parte di questa grande famiglia umana - sei miliardi di persone - e ognuno di noi non è che un puntino che accoglie dentro di sé il mistero della vita; ma è anche una cosa grande, non perché un uomo è grande ma perché è "uomo". La grandezza è legata all'uomo come tale. Ricordo mio padre, mia madre e i due ettari di terra& E ricordo come una volta da bambino io e mio fratello ci eravamo messi in cammino per andare a prendere il sole&, metterlo in un sacco e portarlo a casa; era così bello il sole d'autunno! Esso cadeva sempre là, oltre la siepe.

Eravamo una famiglia normale, bella, che mi ha dato il gusto della vita. Poi mi piaceva Gesù, come se ne parlava, in paese e dal parroco. Mi ha affascinato questo personaggio che non vedevo, ma di cui tutti parlavano. Mi piaceva fare ciò che diceva. Sono entrato in seminario pensando di fare un po' il mestiere di Gesù. E poi mi hanno detto che ci sarebbe stato da studiare; non capivo& credevo che bastasse leggere quel "libro" della messa. In seminario c'è stato l'incontro con Cristo. Un incontro personale, lento, faticoso& man mano che diventavo adolescente e aprivo gli occhi alla vita. Mi ha aiutato molto la piccola Teresa di Lisieux: ella mi aprì la strada coi suoi suggerimenti: diventare piccoli, semplici, accettarsi come si è, con i propri limiti. In fondo lei diceva che uno più è piccolo più è adatto. Ripensando un po' alla mia vita vedo che questa piccola donna per me è stata una grande maestra. Tante volte ho dovuto prendere delle posizioni o presentarmi davanti alle autorità o, diciamo, assumere delle responsabilità nella vita sapendo che quello che conta è essere profondamente onesti. Allora le parole di Gesù, ascoltate con Teresa di Lisieux, diventavano davvero il tesoro nascosto: essere semplici, imparare ad amare, a perdonare, ad essere fratelli, a camminare insieme. Era scoprire e penetrare il "senso del mistero Il senso del mistero ci aiuta a camminare e ci invita a non vivere nella superficialità, ma ad entrare nel profondo di noi stessi, a cercare nella verità. È importante imparare a "mettersi in ginocchio" davanti alla vita, con un atteggiamento di grande rispetto, di ascolto, del mistero che ci avvolge. Si fa presto a dire: "Io credo", ma è solo il piccolo linguaggio degli uomini. Noi siamo avvolti dalla vita che non abbiamo mai posseduto prima, una vita che ci accoglie e ci è data "in gestione". La persona di Gesù rappresenta per me il volto di questo mistero che mi viene incontro e mi parla. Questo mi è sembrato molto importante anche se nell'adolescenza e nella giovinezza lo capivo vagamente. Uno vorrebbe essere subito adulto, afferrare, ma poi si accorge che non si arriva mai. Tu cresci in esperienza, proprio del tuo limite, del tuo poco e in questo senso tu piano piano sei come afferrato, come dice Gesù: "Dall'intimo di chi crede in me scaturiranno fiumi di acqua viva" non tanto perché io sia l'acqua, ma perché la sua acqua, il suo torrente può passare dentro di me, come dentro ciascuno di noi.

Poi mi ha affascinato l'incontro con un gruppo di cristiani che mi ha dato la percezione netta che siamo chiamati ad essere comunità, una comunità aperta, che ha a che fare con tutta la storia degli uomini, con il presente, una comunità che abbraccia la vita nella sua quotidianità, nella sua realtà. Mi sembrava di capire che la presenza del Risorto vibrava e vibra nelle congiunture della storia, della vita degli uomini, della società: non c'è niente che sulla terra non abbia bisogno dell'ossigeno o dell'acqua o del fuoco. In quella realtà piano piano io vedevo le orme di Dio. Quest'inverno è venuta una piccola nevicata e sono rimasto fuori a vedere le orme sulla neve, sono stato lì a contemplare; vedendo le orme mi sono detto "Qui è passato qualcuno". E sono rimasto a roflettere sulle tracce di Dio sulla nostra storia. In qualche modo ho sentito che Dio si è accostato a me, un mistero questo che mi prende e mi affascina per la sua Presenza e per il contenuto del messaggio: imparare a voler bene, a perdonare, a diventare servitori gli uni degli altri, come vi dicevo prima. Il Vangelo mi è sembrato allora una cosa bellissima e l'idea che c'era tanta gente che non lo conosceva, mi turbava.

Avevo letto in terza media, cinque delle lettere di Francesco Saverio e mi erano piaciute tantissimo: furono un'illuminazione e aumentarono il mio desiderio di far conoscere il Vangelo. Poi guardavo il crocifisso, che per me rappresentava i popoli, la gente, la storia e tutti i nodi di dolore e di sofferenza di ieri e di oggi. Mi sembrava che abbracciare il crocifisso volesse dire camminare con lui in un'itineranza evangelica che ho poi legato alla famiglia religiosa dei Missionari Saveriani che mi ha aiutato a dar corpo a questo progetto.

Il 1º maggio del '69 mi capitò un incidente d'auto. Per questo mi trovo ora in una sedia a rotelle. Divento handicappato e penso ai limiti e alla fragilità che è rimasta come evidenza della croce che ognuno di noi ha: & la croce non è soltanto la carrozzella, sono tante le croci nella vita. Resta comunque l'evidenza di una croce che è legata a me. Questa croce a un certo punto l'ho sentita come un dono, anche se difficile: l'incontro duro con la sofferenza che spezza e libera il nostro io. Spesso noi preti parliamo del peccato originale come se fosse l'unica risposta al problema del dolore; e invece c'è il limite che l'uomo porta con sé perché è come un germe che deve crescere e deve svilupparsi. Molte cose della "non evidenza" (o del difficile della vita) sono legate ad una legge di crescita che è in noi. Io credo che il dolore sia una di quelle realtà profondamente legate al nostro intimo; è forse uno dei motivi che fa accettare al Padre la sofferenza del figlio suo Gesù: ed è una grazia grande incontrare questo Dio inchiodato sulla croce, fratello del nostro soffrire.

Mi ha aiutato tanto anche uno scrittore, il teologo Bonhoeffer. Mi ha fatto capire come non fosse giusto cercare un Dio che "mettesse a posto le cose", ma era necessario incontrare il Dio crocifisso; il camminare con Lui era un camminare davvero da figli di Dio. Dobbiamo aprirci a Lui se vogliamo imparare a parlare la lingua del Padre, a respirare l'alito del Padre e a dire il nostro "sì" alla vita. Non avevo previsto, forse come tanti, la croce nella sua verità, poi ho capito che è la strada comune per crescere, come il chicco di grano che muore nel solco, marcisce e rinasce di nuovo dando molto frutto.

Mi sono trovato poi a Roma, in periferia con la povera gente e lì ho colto un altro frutto: quello di mettermi a scuola della vita, di coloro che cercano casa, lavoro& Mi ha accompagnato la parola di Gesù che vediamo ripercuotersi rivolta a Paolo apostolo: "Non aver paura perché io sono con te. Ho un popolo numeroso in questa città". Altre volte sentivo dire dentro di me: "Alzati e cammina, non aver paura, va avanti".

Nel '75 ho avuto la grande gioia di andare in missione, in Zaïre/Congo. Lì ho vissuto la comunità con un gruppo di altri fratelli e sorelle, ed ho scoperto che il tesoro dell'Africa è la sua gente. Ho vissuto tanti anni in un centro per handicappati e poi in un piccolo villaggio della solidarietà. La sofferenza ci ha molto unito alla gente del posto, come pure la lotta comune contro i mali della nostra società, l'ascolto di quel vangelo e di quella "Presenza" che ci donava la gioia di sentirci fratelli e di imparare insieme la saggezza che conduce alla vita. C'è stato il tempo per incontrarci nel profondo. Ci preoccupavamo di stare con gli ammalati, visitarli, vivere con loro, renderci fratelli il più possibile, di "essere in ascolto". C'è stato il tempo per incontrarci e ci siamo accorti che la diversità è ricchezza. È stato un dono imparare dai fratelli africani handicappati la spontaneità, la gioia della vita. Ho capito che la vita è un dono. Sì, l'ho capito più in Africa che in Italia. Là sentivo la festa della vita: un bimbo che nasce, il matrimonio, il legame con il gruppo (ho visto anche cose meno belle: il fatalismo, come tutto quello che è legato ad una concezione statica della vita). Il senso religioso è forte, si respira dappertutto la presenza di Dio. Mi spaventava l'idea di ritornare in Italia, in un ospedale, dove sembra sia solo il medico e la medicina a salvarti e poi alla fine tu sei solo, davanti alla vita o alla morte. Anche noi, missionari europei, cercavamo di dare qualcosa della nostra cultura occidentale: il senso della persona, la programmazione, la concretezza, i tempi& Poi il tempo da vivere insieme: "Avevo fame&, avevo sete&, ero nudo&". Quante volte nel centro handicappati, nella prigione, nelle strade abbiamo vissuto questo "diventare fratelli", abbiamo preso parte alla storia del gruppo, del popolo.

Nel '93 sono cominciate le lotte, le guerre e noi abbiamo intrapreso il "ministero della pace". Ci siamo proposti l'ideale della città: una comunità di uomini diversi ma uniti nella ricerca del bene comune. Ci siamo proposti di fare politica, politica nel senso nobile: cioè di occuparci della città, dell'ospedale, della scuola&

Qualche anno prima avevo vissuto una forma di setticemia che mi faceva percepire la realtà in modo alterato: la stanza rettangolare diventava ovale& È stata un'esperienza dura che si è ripetuta e prolungata a lungo e che mi ha costretto a tornare in Italia. In quel periodo mi sono ritrovato spoglio, a zero, davanti alla verità che ti ricorda il tuo "niente". E nel freddo del cuore ho sentito tutta la ricchezza, e la forza di quella frase di Gesù: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato". Sono tornato in Africa dopo quattro lunghi mesi.

Nel '94 ho vissuto insieme ai miei compagni l'arrivo dei profughi dal Ruanda, circa un milione e mezzo di persone. Era il dramma di una lotta che toccava tutti: il 70% dei rifugiati erano donne e bambini, senza colpa, gente che non aveva mai fatto politica. In questa situazione avevo la percezione netta che o ci si butta ad amare o la nostra vita non conta niente. "Il poco che puoi fare, fallo: ama". Vedemmo questa folla arrivare al mattino& dopo tre, quattro giorni di paura, dopo che mi ero svegliato di notte ancora sentendo paura, ho pregato intensamente e mi è sembrato che una forza dal di dentro mi dicesse: "Io ho fame, io ho sete&, sono io". Ci siamo ritrovati un po' tutti con la voglia di aprire le porte e di offrire tutto ciò che avevamo e di accogliere gli ammalati di colera. Con noi c'erano anche dei Tutzi e avevamo detto loro di tornare a casa, di non venire al lavoro perché era troppo rischioso. Ci hanno risposto: "No, se rischiate voi, perché non dobbiamo rischiare noi?". Siamo rimasti insieme, è stata un'esperienza fortissima di amore. E continuavo a dire, (perché pensate, sono morte circa 40.000 persone): "Oggi sarai con me in paradiso". Benedicevo così le salme che io potevo vedere ai lati della strada.

Un altro momento molto forte è stato a giugno del '95: un secondo incidente. Eravamo in viaggio verso Loreto; una macchina ci ha investito. È morta Paola, una nostra sorella, e fu per me molto difficile accettare e dicevo: "Ma Signore, tocca a me!". E poi, riferendomi alla Madonna: "Mamma stavamo venendo a casa tua!". E poi, nel silenzio - quel silenzio del mistero in cui tu non parli, ma ascolti, in cui senti il tuo nulla - mi è sembrato di sentire: "La vita te la do in gestione, non è tua& Io ti chiedo resta, resta". Allora mi è sembrato di ricevere un nuovo mandato: "Continua a camminare, cammina, cammina&". Probabilmente - mi sono detto - non sono adatto per il regno dei cieli, allora il Signore mi tiene ancora su questa terra! Mi sembrava di non aver paura, di non temere la morte e di vedere come è giusto e anche bello constatare che c'è una tappa (quella terrena) che finisce, e c'è il nostro io profondo che deve diventare adatto a restare per sempre, per l'eternità. Di noi deve restare solo l'amore, e ci sarà per sempre. Perché Dio è Amore& Allora guardando al futuro mi sembrava di poter danzare.

Ho raccontato alcune tappe della mia vita: l'incontro con Cristo, l'incidente d'auto, il cammino nella missione (Zaire/Congo)&

Per terminare vorrei fare un accenno alla gioia del limite: il limite non è un fallimento. Il nostro tempo ci offre, nonostante molti aspetti negativi, tante opportunità di scelte - quasi obbligatorie - di fraternità, proprio legate al fatto che noi, in fondo, siamo collocati oltre le sicurezze che un tempo pensavamo di possedere. I confini di un paese, la sicurezza di una cultura, le ideologie& si sono rivelati fragili. Oggi abbiamo la possibilità di varcare i limiti dello spazio e del tempo, di giocare in diretta, in tempo reale. Possiamo vedere spazi nuovi. Oggi siamo assolutamente destinati ad essere l'uno accanto all'altro, non possiamo essere divisi, siamo provocati dalla storia del nostro tempo a sentirci parte gli uni degli altri. Mai come oggi sentiamo il valore della libertà: tu puoi inserirti in questo mosaico come puoi essere un buco vuoto, però "tu puoi" e là è il percorso della vita: segui questo percorso! Dicevo prima di non credere che ci sia un fallimento totale nella vita, neanche la morte lo è. Lo dico naturalmente pensando alla proposta di Gesù: "Vado a preparare un posto per voi", ma lo dico pensando proprio al meglio di noi stessi che è chiamato ad unirsi alla grande realtà che è la vita che sarà sempre. Capire che anche il saper perdere ha un senso: per es., accettare il limite dei miei occhi, ora devo portare gli occhiali; il limite della pesantezza del mio corpo, ho i miei primi acciacchi& portare i limiti nella prospettiva di una libertà più grande. Accettarlo mi sembra importante. Penso inoltre che siamo tutti chiamati a passare dall'etica alla mistica, alla sua dimensione più profonda, là dove l'uomo si incontra con l'altro uomo, perché uomo, perché è nato dalla vita e torna alla vita. La mistica permetterà alle grandi religioni di incontrarsi, senza paura, la mistica permetterà a noi tutti di fare quel passo per saperci incontrare nella verità e diventare più fratelli, la mistica nel quotidiano, nelle piccole scelte. È mistica quando una famiglia ha il coraggio di accogliere un bambino sia perché lo mette al mondo, sia perché una creatura chiede di avere un padre e una madre, sia perché ci facciamo compagni di strada di persone che sono lì, accanto a te, e ti accorgi che cercano una risposta. Diventare fratelli l'uno degli altri. Non basta l'etica, occorre la mistica, occorre fare un passo ulteriore per diventare quel mosaico di umanità che siamo chiamati ad essere.

"La persona pia di domani, scrive Karl Rahner, o sarà un mistico, uno cioè che ha sperimentato qualche cosa, o cesserà d'essere pio".

Campagna Chiama l'Africa

Sulla campagna Chiama l'Africa, di cui è stato l'ideatore, Silvio Turazzi ha detto.
Dopo un Seminario, fatto a Parma, è nata la "Campagna Chiama l'Africa" con l'idea di trovarci tra organismi che hanno lavorato e che sono presenti in Africa, per essere più significativi. Ricordavo certe domande martellanti fatte in terra d'Africa: "Perché non possiamo parlare? Perché non possiamo essere informati? Perché alla radio dobbiamo sentire "France en terre" e non possiamo sentire i fatti di casa nostra sulla nostra radio? Perché dobbiamo sentire "La voix de l'Amérique" e la nostra radio no; e la nostra televisione no?". Così è nata la Campagna. La parola "campagna" non ci piaceva molto, ma piuttosto pensavamo a "un tempo forte di attenzione", perché non doveva finire - un rapporto, un legame non finisce -. Se gli africani sono dei fratelli& uno non può dire, adesso per un anno badiamo all'Africa e poi&basta. E cosa si voleva proporre? Che noi siamo una famiglia, con culture diverse, con delle sfaccettature diverse, con delle ricchezze, delle povertà, dei limiti. Ma davanti a questi popoli dell'Africa abbiamo cercato di fissare un punto di riferimento: 500 anni fa Vasco De Gama era a Mombasa per andare verso le Indie. Era l'accerchiamento del continente africano. Da lì sono nati, in quel periodo, la schiavitù, lo sfruttamento: questi fatti hanno inciso nel profondo del cuore di tante persone, di tanta gente. Il colonialismo non era solo il fatto di dire "portiamo via l'oro", è il fatto di distruggere, calpestare la personalità, la cultura di un altro; è il fatto di non capire gli aspetti, di vedere tutte le manifestazioni africane come delle forme di inciviltà, per esempio, i loro "idoli"&, e invece erano fatti stupendi della vita dell'uomo, quello che l'uomo con il soffio di Dio, nel mistero, plongé dentro il mistero, può costruire.

Ecco allora il tentativo di scoprire, di metterci in un rapporto di fraternità con i fratelli e le sorelle dell'Africa.

A partire dal 1995-'96 ho provato una delusione profonda nei confronti delle istituzioni internazionali: vedevamo e sapevamo di centinaia di milioni di profughi, eppure non ci fu alcun intervento, perché uno o due Paesi non hanno posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Noi avevamo cercato di mobilitarci per far promuovere una mozione nel senso di un intervento: senza esito. Poi lo scandalo, la cattiveria, l'odio, il seguire il profitto ad ogni costo, calpestando la vita di tante persone. L'abbiamo scoperto quando le imprese multinazionali si scambiavano i territori, formulavano accordi con il nuovo liberatore Kabila che adesso sta per essere buttato via, e che sta rientrando di nuovo perché gli aiuti internazionali gli consentono anche di esistere. Ha avuto milioni di dollari; in Ruanda si è rifornito di armi con l'Unione Europea, l'Italia stessa è presente perché c'è l'Agip vicino alla capitale. Sui mezzi di comunicazione di oggi via satellite si è visto questo fiume di persone, queste masse di profughi andare a morire& e non c'è stato alcun intervento, si lasciava questa gente morire lentamente! Questo è stato veramente inaudito. Onoriamo oggi con tranquillità quelli che sono morti, ma per quelli che adesso si possono salvare non si muove un dito. Ci si rende conto che il mondo è governato da finanzieri e politici al servizio delle finanze (essi vogliono che si consumi sempre più, mentre dovremmo diminuire come quantitativo di consumo di almeno dieci volte per fare un po' di fraternità con i nostri vicini di casa). Ma l'obiettivo primario della Campagna è dire una parola: la dignità dell'uomo, della cultura, dei popoli dell'Africa che sono parte integrante della famiglia umana. Riscoprire il dialogo con loro, metterci in ascolto, e poi capire i meccanismi che determinano un continuo decadimento. Quando, per esempio, sono andato in Congo nel 1975 c'era povertà ma poi gradualmente ho visto diffondersi la miseria&.