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SOBRIETA' E' IL NOME DEL FUTURO
Antonio Nanni
Introduzione al tema del Convegno
1. Che cosa significa "abitare il limite"?
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Significato positivo
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Significato storico
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Significato filosofico
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Simone Weil
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E. Lévinas
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Hans Jonas
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Hannah Arendt
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Dall'etica della convinzione all'etica della responsabilità (Max Weber)
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Significato educativo
2. Perché la cultura della sobrietà?
Forse sarà opportuno ricordare, soprattutto ai nuovi convegnisti, che negli ultimi dieci anni abbiamo esplorato alcuni sentieri di riflessione, procedendo un po' a zig-zag, ma sempre dentro una cornice coerente e unitaria:
- il sentiero dell'alterità (accoglienza, differenza, solidarietà, convivialità, interculturalità, ecc.);
- il sentiero della narrazione (la pedagogia narrativa);
- il sentiero dell'azione, della coscienza civica, del comportamento, della cittadinanza (pedagogia dei gesti).
A questi tre sentieri principali va forse aggiunto l'ambiente, la sensibilità ecologica che è stata sempre presente nel CEM.
La cornice unitaria di questi tre o quattro sentieri è stata la mondialità.
Il tema dello scorso anno ("Oltre la siepe. Educare alla mondialità nell'era della globalizzazione"), anche grazie al contributo del prof. Riccardo Petrella, competente e brillantissimo, ci ha consentito di individuare le implicazioni educative della globalizzazione. Ci siamo domandati quali fossero i nuovi compiti dell'educazione nella società che viene definita cognitiva, post-moderna, multietnica e globalizzata.
Abbiamo visto che alcune delle più importanti sfide della globalizzazione sono quelle che derivano
- dal primato dell'economia;
- dalla concentrazione del potere nelle mani di pochi;
- dall'omologazione culturale e dal pensiero unico;
- dalla forte esclusione sociale (la società 20/80);
- dall'assenza di un governo mondiale;
- da un meticciamento sociale crescente;
- da un futuro che appare senza meta e che genera soprattutto angoscia.
Ebbene il tema di questo anno "Abitare il limite. Per una cultura della sobrietà", consente al CEM di esplicitare e mettere a punto una delle possibili risposte che l'educazione può offrire alle sfide della globalizzazione. Ed è una risposta che esprime profondamente la filosofia educativa del nostro movimento. Noi crediamo infatti che sia necessario un rafforzamento dell'educazione civica, non tanto come disciplina scolastica, quanto come un nuovo civismo, che faccia comprendere a tutti sia l'importanza del rispetto delle regole (le regole della convivenza e le Leggi della Polis) sia l'importanza dell'assunzione delle responsabilità.
L'educazione, cioè, dovrebbe oggi lavorare di più per una cultura dei diritti e dei doveri, come viene sollecitato anche dal documento dei 44 saggi, dal Consiglio d'Europa e dall'Unesco.
1. Che cosa significa "abitare il limite"?
Ritengo opportuno articolare la risposta in quattro punti:
- il significato positivo del concetto di limite;
- il significato storico e politico;
- il significato filosofico;
- il significato educativo.
a) Significato positivo
La parola limite del linguaggio quotidiano non suona bene all'orecchio. Nessuno vuole sentir parlare di limiti o, peggio, essere limitato. Limite evoca spesso il concetto di ostacolo, tabù, divieto, proibizione, semaforo rosso, segnale di stop, barriera inviolabile, confine, frontiera, handicap, inferiorità, vincolo, condizionamento, ecc.
Invece noi utilizziamo il concetto di limite positivamente come risorsa, regola. L'etimologia latina di limite significa viottolo, linea che fa chiarezza, tracciato dirimente, e dunque consapevolezza delle proprie possibilità, e proprio per questo incentivo alla ricerca di alternative.
In questa accettazione positiva abitare il limite significa assunzione della propria finitezza, della propria parzialità e creaturilità.
b) Significato storico
Che cosa vuol dire oggi "abitare il limite"?
Vuol dire chiamarsi fuori dalla modernità, collocandosi nel post-moderno. Prendere congedo dal Progetto moderno e dal Soggetto moderno che proprio non vuol saperne di "abitare il limite".
Voleva essere il-limitato.
Se ora proponiamo di "abitare il limite" vuol dire che oggi siamo consapevoli della improponibilità storica di abitare una dimora sicura, una fortezza e dunque abitiamo il Viottolo. Nel tempo della complessità e dell'incertezza non possiamo che abitare il limite, cioè il margine, la sporgenza.
Sul piano storico-politico "abitare il limite" è critica al Modello Occidentale di sviluppo, perché non rispettoso dei limiti ambientali e dunque non sostenibile, non compatibile con la natura. Proprio per questo da cambiare perché non ha futuro.
Susan George con estrema chiarezza mostra dove sta la contraddizione strutturale del modello di sviluppo occidentale: è un sistema economico aperto, espansivo, cumulativo (che tende fisiologicamente a crescere), mentre il sistema ambientale, l'eco-sistema (la biosfera) è un sistema dinamico, ma chiuso. I due sistemi sono dunque incompatibili. Per questo, il Modello Occidentale non appare sostenibile perché è generalizzabile su tutto il pianeta. Perciò non ha futuro!
c) Significato filosofico
Per mettere in luce il significato profondo di "limite" abbiamo scelto di affidarci all'asse filosofico-ebraico rappresentato da Simone Weil, Lévinas, Jonas e Hennan Arendt.
Da ciascuno di questi autori ricaviamo alcune suggestioni molto interessanti anche sul piano educativo:
1. Simone Weil Grande pensatrice francese, morta a soli 34 anni nel 1943, figura davvero singolare che ai giovani andrebbe fatta conoscere.
La sua originalità, rispetto al nostro tema, sta nell'aver operato un collegamento tra il concetto di limite e il concetto di creazione mettendo in evidenza il carattere generativo del limite come autodiminuzione. Riprendendo un motivo della mistica ebraica, Weil dice che Dio mentre crea il mondo, contemporaneamente si ritrae, si contrae, si autolimita (de-creazione).
A me sembra che questa idea sia stupenda.
La scelta di abitare il limite, dunque, non è affatto sinonimo di fallimento o di impotenza. Ma possiamo compierla in funzione di una novità più grande. Ossia quando scegliamo di abitare il limite per amore, allora il limite diventa creativo.
E nella sua vita Simone Weil ha fatto proprio questo. In varie sue opere sviluppa temi importanti come quelli dell'attesa, dell'attenzione (occhio dell'anima), della premura per l'altro.
2. E. Lévinas Secondo Lévinas il limite è una dimensione costitutiva dell'uomo. Solo abitando il limite l'uomo può aprirsi alla trascendenza.
Cioè, paradossalmente, solo affermando la propria finitezza l'uomo può riconoscere l'infinito.
Per Lévinas, quando l'uomo dimentica di "abitare il limite" non è più capace di prossimità.
Allora pretende di abitare nella totalità; ma il pensiero della totalità (che non riconosce più alcuna esteriorità, alterità, differenza&) diventa totalitarismo, nazismo, olocausto.
Pensare dopo Auschwitz, significa accettare di abitare il limite.
E solo abitando il limite si potrà dire "eccomi" al volto dell'altro che ci fa visita. Senza il limite, dunque, non sarebbe neanche possibile il faccia-a-faccia, la reciprocità dei volti, la prossimità.
L'Io di cui parla Lévinas è così profondamente limitato, depotenziato, kenotizzato& che la sua fondazione è del tutto passiva, anzi è sollecitata dal farsi avanti dell'altro. Sicché l'Io, sorpreso nella sua nudità, è nient'altro che "risposta", responsabilità, prendersi cura dell'Altro. Addirittura l'Io diventa ostaggio dell'Altro. Sulla base di questi pensieri Lévinas ci ha fatto scoprire quel nuovo paradigma educativo che abbiamo formulato così: educare a partire dall'altro.
In questa luce, ogni volta che riconosciamo i diritti umani riconosciamo anche i nostri doveri. Anzi, proprio perché noi abbiamo dei doveri verso l'Altro, l'altro può rivendicare i suoi diritti.
3. Hans Jonas Filosofo tedesco, anche lui di origine ebraica, scomparso nel 1993. L'Opera cui ci riferiamo è "Il principio responsabilista" (Einaudi, Torino 1990) titolo che rievoca quello di Ernst Bloch (Il Principio speranza) al quale invece Jonas si contrappone anche perché l'utopia sarebbe immodesta, arrogante, troppo sicura di sé.
Per Jonas, laicamente parlando, non esiste un principio-speranza, un futuro rassicurante!
La realtà da cui partire è che noi abbiamo paura del futuro.
Soprattutto oggi, perché la stessa sopravvivenza della specie è minacciata. Ebbene, attraverso un'euristica della paura, Jonas ci invita a trasformare l'angoscia per il futuro in una risorsa di responsabilità. Euristica della paura vuol dire far leva su questo nostro atteggiamento verso il futuro, per orientare le nostre scelte.
Cioè sfruttare positivamente l'elemento della paura nella ricerca (euristica) delle soluzioni.
Certamente la paura è qualcosa di ego-centrico, però, la paura del futuro è un "egoismo lungimirante" che ha una sua utilità e che può diventare una risorsa di responsabilità.
L'euristica della paura ha il compito di aiutare il nostro agire, introducendo un elemento di prudenza. Ognuno di noi deve chiedersi: "quali sono gli effetti delle mie azioni e delle mie scelte sull'umanità e sulla biosfera?".
Ma non basta controllare gli effetti. La responsabilità richiede un pensiero preventivo e pertanto bisogna soprattutto sorvegliare l'inizio delle nuove azioni che stiamo per compiere. E questo perché i risultati potrebbero essere irreversibili o difficili da correggere.
Se in Lévinas la responsabilità viene declinata prevalentemente come un "rispondere a" (il volto) in Jonas la responsabilità viene declinata come un "rispondere di" cioè come un assumersi il peso degli effetti che le proprie azioni hanno nel tempo e nello spazio. Noi siamo responsabili, oggi, di come vivranno le generazioni future!
Io sono limitato ma la mia responsabilità (e solo questa) non è limitabile, è illimitata (dimensione diacronica della responsabilità).
Perché? Perché nessuno di noi ha il potere di limitare nel tempo e nello spazio gli effetti delle sue azioni.
Secondo Jonas bisognerebbe costruire una scienza previsionale per poter valutare l'impatto delle nostre scelte sulla vita, sulla biosfera.
Per Jonas i Paesi Occidentali non hanno il diritto di limitare lo sviluppo del Sud del mondo, senza limitare anzitutto il proprio modello di sviluppo. Dice testualmente: "Sarebbe una cosa oscena predicare agli affamati delle Nazioni povere di preservare l'ambiente per un futuro migliore. Anche alla nostra opulenza vanno poste limitazioni".
Nell'opera di Jonas troviamo dunque i fondamenti di un rispetto preventivo verso le generazioni future e verso la totalità degli esseri viventi.
4. Hannah Arendt E' un'altra filosofa ebrea e tedesca (scomparsa nel 1975) che nelle sue opere ci stimola a vivere la nostra responsabilità "per amore del Mondo", perché ognuno di noi viene al mondo e poi lascia questo mondo agli altri. Proprio come la sua abitazione.
Allora non possiamo restare indifferenti alle sorti del mondo.
Ma Hannah Arendt ci mette in guardia da un dispositivo di deresponsabilizzazione al quale un po' tutti facciamo spesso ricorso, quando affermiamo:
- il male fa parte della natura stessa;
- una colpa collettiva;
- dipende dalle strutture e dal sistema.
È in questo modo, osserva Arendet, che assolviamo le nostre responsabilità personali (omissioni/complicità).
Dall'etica della convinzione all'etica della responsabilità (Max Weber)
Ma a proposito di responsabilità risulta opportuno un richiamo a Max Weber che distingue l'etica della responsabilità dall'etica della convinzione.
Ebbene: chi non si preoccupa degli effetti delle sue azioni non è responsabile!
L'etica della convinzione (religiosa) sarebbe una forma di fondamentalismo!
È un compito educativo, oggi far comprendere la distinzione fra le due etiche. Sono due etiche complementari, non antitetiche.
L'etica della convinzione è un'etica dell'ordine!
L'etica della responsabilità è un'etica della trasformazione!
L'etica della responsabilità è sempre una libera scelta, una decisione intenzionale, un'azione voluta!
Un'etica della convinzione finirebbe per essere profonda, coerente, assoluta ma anche individualistica, statica e ingenua (naïf) oltre che integralista, provvidenzialistica e un po' fanatica!
Intanto io faccio così (perché ne sono convinto), poi si vedrà. Al contrario un'etica della responsabilità induce a fare i conti con la società e con la natura.
d) Significato educativo Ma che cosa vuol dire "abitare il limite" dal punto di vista educativo?
Soprattutto tre cose:
- imparare a convivere con gli altri; rispettando le regole che ci siano date;
- avere un rapporto più dolce e più estetico con la natura e con le cose, che non sono mai soltanto delle merci.
- Riconoscere però che il nostro limite non azzera il potere che abbiamo di resistere e di progettare nuove iniziative.
Sul piano educativo abitare il limite vuol dire anche narrare con sapienza la sofferenza, il dolore, la morte, la malattia, la disperazione, la solitudine& Cioè appunto le esperienze esistenziali del limite. Tutto questo, infatti, nella nostra società o viene spettacolarizzato e banalizzato oppure viene rimosso e taciuto.
Abitare il limite significa inoltre valorizzare la memoria storica, la tradizione, la cultura locale, la nostra stessa struttura biologica (la corporeità).
Abitare il limite significa infine realizzare un lavoro educativo di decolonizzazione dei cervelli dal fascino del potere illimitato.
Si tratta di aiutarci a venir fuori da un immaginario collettivo secolare per il quale:
- l'uomo deve dominare sulla natura;
- il futuro sarà migliore del passato;
- la velocità è in ogni caso da preferire alla lentezza;
- la quantità degli oggetti consumati è un indicatore di ricchezza& ecc.
In fondo, però, noi già abitiamo sostanzialmente il limite, perché viviamo in un tempo di incertezza.
Ora tutto questo è anche molto positivo, perché: più grande è l'incertezza, più ampio è l'orizzonte della scelta e il senso di responsabilità.
C'è infatti una connessione molto profonda tra incertezza e responsabilità.
Ma forse uno dei compiti più urgenti dell'educazione oggi, nel tempo della globalizzazione, è quello di far comprendere il rapporto tra etica del limite:
- ricerca scientifica;
- nuove tecnologie della comunicazione;
- scelte di politica economica.
Oggi la scienza vive (o abita) il limite in modo paradossale: da una parte lo riconosce (non è più dogmatica!), basti pensare alla teoria della relatività; al principio di indeterminazione; all'approccio falsificazionalista; al pensiero debole; dall'altra la scienza non riesce sempre a rispettare il limite.
E tuttavia, senza il riconoscimento di un limite, come si potrebbe impedire alla sperimentazione scientifica, ad esempio, la clonazione degli esseri umani?
E a chi compete stabilire questo limite?
Etica del limite significa infatti domandarsi se è lecito che una coppia di genitori decida oggi di far congelare un embrione perché il figlio dovrà nascere nel 2006 (penso alla coppia di Londra che si è posta tale obiettivo).
Oppure se una coppia possa stabilire, attraverso la manipolazione genetica, quali saranno i tratti somatici del proprio figlio, magari secondo le mode del momento (adesso è arrivato il Tarzan biondo con gli occhi azzurri!).
Grazie a Dio c'è ancora tanta gente, me compreso, che stravede per Pantani, nonostante le orecchie.
Ma il problema va ben al di là di questi esempi di bioetica familiare.
Ci riferiamo al problema delle biotecnologie (cellulari e molecolari), alle banche dei semi e dunque alla biodiversità, all'impiego dei pesticidi, alle armi chimiche e batteriologiche, ai prodotti alimentari transgenici (che tanti nostri bambini già mangiano nelle mense scolastiche o quando fanno la merenda trans-genica (patate, mais, pomodoro&).
Abitare il limite significa anche tutelare la privacy dell'individuo da ogni forma di invadenza e in particolare dal potere dell'informatica; significa ostacolare con leggi anti-trust ogni superconcentrazione di potere nelle mani di pochi (come oggi avviene con Bill Gates).
Sul piano del vivere sociale, etica del limite significa, come ci ha insegnato Alex Langer:
- passare dalla triade più veloce/più alto/più forte
- alla triade più lento/più profondo/più dolce
significa dare il giusto valore al mercato, al profitto, al consumo, alla competitività;
significa, infine, prendere iniziative politiche e sindacali per la riconversione ecologica della produzione e del lavoro (come ci suggeriscono le ricerche sociali dell'Istituto di Wuppertal).
In conclusione: se la terra non regge il nostro modo di produrre e di consumare, bisogna cambiare prima che sia troppo tardi!
Il viottolo che noi intraprendiamo per operare il cambiamento è appunto l'etica del limite e la cultura della sobrietà.
2. Perché la cultura della sobrietà?
La risposta ormai è chiara: il modo operativo, concreto, per "abitare il limite" nella vita quotidiana è la cultura della sobrietà.
Chi vive nella sobrietà abita già il limite.
Se il CEM propone questo non lo fa perché è composto da un gruppo di penitenti, anacoreti, un po' masochisti e autoflagellanti& La chiave di lettura è un'altra.
Non abbiamo forse sempre parlato di convivialità?
Ebbene, la sobrietà diventa una pratica sociale che ci consente di tradurre l'ideale della convivialità in stili di vita.
Ritengo sia molto importante cercare di evitare la deriva pauperistica della nostra riflessione sulla sobrietà!
Perché per noi la sobrietà non è solo un problema di quantità e di riduzione.
Così pure si dovrà evitare di cadere nel tranello di una casistica della sobrietà!
- Quante paia di scarpe
- Quanti pantaloni&
- Fino a che cifra si può spendere per le vacanze&
Per noi la sobrietà è qualcosa di molto più profondo. Solo una persona che accoglie, che ama, che condivide& può scegliere la sobrietà come stile di vita.
Se una persona egoista sceglie la sobrietà: o non è coerente oppure non è egoista!
Sobrietà è per noi un concetto ricco di significati che evocano la semplicità, l'equilibrio, l'essenzialità, il senso della misura, l'armonia.
Vi è certamente nella sobrietà una dimensione di lievità, di leggerezza& perché ci libera dal peso del superfluo!
Tutto questo, però, comporta il superamento del modello consumistico e la scoperta che il benessere non è dato dalla quantità delle cose che ci circondano ma dalla quantità delle relazioni con gli altri.
Sobrietà è la capacità di distinguere i bisogni reali, dai bisogni indotti, e dunque di controllare i propri desideri.
Sobrietà è disponibilità alla condivisione dei beni, senza egoismi e senza sprechi.
Sobrietà è anche collocarsi nel solco della tradizione francescana che vede nella semplicità del vivere la fonte della perfetta letizia. Sobrietà è riscoprire una delle virtù cardinali, del tutto dimenticata: la temperanza all'interno di una società dei consumi, come la nostra. C'è dunque nell'idea di sobrietà veramente qualcosa di sovversivo e di profetico, cioè insieme una denuncia (dello spreco) e un'anticipazione (di ciò che altri vivranno domani).
La sobrietà di oggi è un investimento sul futuro di tutti, è un segno di rispetto per le generazioni future e per il pianeta terra.
La sobrietà è anche vedere il mondo con lo sguardo dei poveri, cioè di chi già vive nella sobrietà.
Proprio perché la sobrietà comprende queste importanti dimensioni culturali, antropologiche e politiche, non deve essere banalizzata!
Il cambiamento deve partire dalla coscienza personale, deve essere prima di tutto una scelta interiore, che poi si rende visibile nei comportamenti, nei gesti, nelle pratiche sociali, negli stili di vita.
Si tratterà spesso di piccoli gesti che si inscrivono però in grandi orizzonti perché accompagnati da una coscienza politica e dalla consapevolezza di prendere parte ad una strategia lillipuziana di cambiamento.
Infatti: se tantissimi uomini e donne
di poco conto
Facessero insieme le stesse scelte economiche
di poco conto
In molti luoghi del mondo
di poco conto
&Ebbene, forse qualcosa del nostro sistema sociale
inizierebbe a cambiare
e il cambiamento non sarebbe
&di poco conto.
Noi siamo dunque convinti che le strategie lillipuziane di resistenza e di cambiamento non siano cattiva utopia, ma funzionino veramente cioè siano efficaci.
Dall'anno scorso a quest'anno ci sono risultati tangibili& se pensiamo ai boicottaggi e alle campagne d'opinione riguardanti:
- la Chicco Artsana&
- la Nike;
- la Campagna contro le mine-antiuomo (si pensi al Nobel);
- il Tribunale Penale Internazionale per i crimini contro l'Umanità (17 luglio 1998), che pochissimi ritenevano possibile&
E allora che fare? Continuare a camminare sul viottolo "stretto stretto" che ci conduce alla soglia del Terzo Millennio. Sulla porta, non molto larga e semichiusa è scritto: "sobrietà è il nome del futuro".
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