CRIMINALITÀ E IMMIGRAZIONE:
UN BINOMIO DA SFATARE
FRANCO VALENTI
Questo è il tentativo di fare una riflessione seria, senza andare a caccia di capri espiatori, sul profondo disagio che colpisce le nostre collettività urbane.
Se poi andassimo a quantificare il prodotto di tutta la criminalità attiva in Italia, vedremmo che la fetta di affari in mano agli stranieri risulta ridicola rispetto ai vortici di migliaia in cui si muove la nostra mala.
Nemmeno centomila poliziotti potranno garantire una vita pacifica a Milano, perché il problema non è solo la devianza italiana o estera che sia, ma è proprio il senso di coesione che viene a mancare.
Il favorire dei meccanismi di emarginazione e di segregazione, in nome della sicurezza, non risolve il problema. Anzi, non fa che rafforzare le ragioni della stessa devianza.
È banale affermare che non tutti gli immigrati sono dei soggetti pericolosi e criminali, come è ancor più banale affermare che tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste e si intrufolano nel nostro territorio sono dei trasportatori di germi criminogeni altamente dannosi per la salute pubblica. Ma ho limpressione che queste banalità abbiano rappresentato una buona parte degli schieramenti emersi dal "dibattito" sugli ultimi fatti di sangue che hanno colpito la città di Milano e altre zone del bel paese.
Giornalisti, solitamente pacati ed equidistanti, opinion maker, venerati come nuovi dispensatori di oracoli, di colpo hanno perso lequilibrio e sono scivolati nella melma del qualunquismo, si sono lasciati prendere dai fremiti di piazza, smarrendo quellatteggiamento, spesso ostentato, di impassibilità anglosassone nel leggere gli avvenimenti, anche quelli più tragici. Forse la paura di trovarsi fuori dal branco e la convenienza di mettere in tasca, in un momento di bufera sociale e culturale, la propria intelligenza critica, hanno fatto sì che tutti si precipitassero allinseguimento di quegli stramaledetti untori.
I politici, soprattutto quelli che stanno dalla parte dei "cittadini", si sono sfregati le mani per la nuova opportunità di caricare emotivamente il senso di appartenenza ad una società. E per quei gruppi sociali, orfani di prospettive e di futuro, quale miglior eroe, se non quello rappresentato dal tutore dellordine del mitico far west, poteva rappresentare il provvidenziale capopopolo della situazione? Le dichiarazioni dei sindaci di alcune città esprimono la gran voglia di portare la stella di latta, di innalzare forche sulle pubbliche piazze e tatuare sulla fronte di ogni straniero la sua fedina penale.
In altre parole, buona parte del bel paese scopre di essere stato invaso da una massa di criminali stranieri, che come lupi affamati vagano nelle nostre periferie cercando chi divorare. E la criminalità italiana? Mai esistita! E la mafia? Mai esistita! E tangetopoli? Mai esistita! E la ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita, la stidda? Mai esistite! E la prostituzione? In Italia, cè mai stata! E il traffico di droga con relativo indotto criminale? Mai esistito prima!
La ricettazione, lestorsione, la truffa? E chi le conosceva? Insomma sono solo "loro", gli stranieri, i clandestini, che hanno importato e gestiscono tutto il malaffare che affligge il nostro paese. I grandi crimini, le gigantesche truffe commesse da personaggi con nomi rigorosamente italiani sono soltanto leccezione che conferma la regola, niente più.
Se poi un sacerdote muore, come accade a diversi missionari in terre difficili, ecco allora che si sottolinea la viltà del personaggio che ha commesso questo efferato delitto, ma non si spendono molte righe per capire chi invece ha contribuito con la propria vita a segnare, con un gesto profetico, lestremo bisogno di umanità.
È chiaro che gli sbraitanti rappresentanti del popolo, più intenti a celebrare il culto di Priapo e a piallare manganelli che a perseguire una dialettica democratica, non conoscono alcuni termini del vocabolario italiano quali solidarietà, tolleranza, equilibrio, dialogo, verità: troppo difficili per le loro modeste capacità intellettive e morali.
QUI CÈ QUALCUNO CHE BARA
Per stare al concreto, alcuni quotidiani riportavano verso la metà di gennaio dei dati riguardanti delitti commessi da stranieri nel 1986, mettendoli a confronto con quelli commessi nel 1996. E si faceva notare, con lenfasi che è nella logica dei fatti, che il numero dei reati e degli imputati stranieri era aumentato e questo a riprova della giustificata preoccupazione emergente. Chi riportava quelle tabelle commetteva però "solo" un piccolo peccato di omissione: e cioè che, in dieci anni, il numero degli immigrati in Italia era più che triplicato e quindi le correlazioni andavano interpretate in modo più corretto.
Riguardo a Milano e ai nove omicidi commessi allinizio del 1999, le indagini hanno indicato come probabili colpevoli i principali clan pugliesi e la ndrangheta calabrese (Il Corriere della Sera, 20/1), ma ovviamente linchiesta reale è una cosa, e linchiesta virtuale, politicamente più importante, è unaltra. Restando ai reati commessi nel capoluogo lombardo, le statistiche dicono che gli omicidi nel 1991 sono stati 96, mentre nel 1998 erano 40, meno della metà, le rapine sono state 4.145, sempre nel 91, e nel 1998 3.873, in lieve diminuzione, i furti nel 1991 sono stati 230.557, mentre a fine 1998 se ne contavano 184.034, nettamente in calo (Il Corriere della Sera, 21/1). Allora, qui cè qualcuno che bara.
È probabile che, rispetto al passato, sia maturata nella società una maggiore sensibilità riguardo alla qualità della vita, e come sono cambiate molte usanze culturali e comportamentali, ad esempio riguardo alla percezione della salute oppure delligiene personale, così si è abbassata anche la soglia della tolleranza verso tutti quei piccoli atti di teppismo o di microcriminalità, che "una volta" si risolvevano con lo scapaccione dei genitori, la ramanzina del maresciallo dei carabinieri o le scuse formali con conseguente risarcimento dei danni. Ma lo spessore iperreattivo del corpo sociale, che spesso supera la soglia dellinsofferenza per scivolare nella xenofobia rabbiosa o nel razzismo, non può essere giustificato solo in questo modo. E non può essere nemmeno soltanto una iperattività investigativa ad aumentare il numero degli arresti e delle condanne.
Sono in atto dei cambiamenti sociali e culturali che investono tutti gli ambiti della convivenza, per cui anche le tipologie di reato e le modalità del delinquere diventano più complesse e sofisticate. È tutto questo insieme di fattori e di variabili che andrebbe studiato con più attenzione.
Se poi alcuni sindaci e presidenti di Regione, dichiaratamente cattolici, vogliono inaugurare la stagione delle 50-100 espulsioni al giorno, dellallontanamento degli immigrati dal proprio territorio, sarebbe meglio che la prossima volta concorressero per essere eletti questori o prefetti, e perché no?, magari per diventare federali o commissari del popolo.
Certo, ogni società ha il diritto di difendere la propria sicurezza interna ed esterna; ogni reato commesso deve essere sanzionato e condannato; ogni condannato deve espiare la propria pena, ed ogni pena ha senso se non è fine a sé stessa, ma porta al recupero sociale del condannato. La quasi totalità dei reati commessi dagli stranieri immigrati sono costituiti da reati contro il patrimonio, da reati di insofferenza all'autorità (resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale), spaccio di stupefacenti e reati legati ai permessi di soggiorno (contraffazione di documenti ecc.).
Al momento, la partecipazione di stranieri a grosse organizzazioni criminali è limitata al ruolo di gregari, anche se è già presente il tentativo di ascesa nella gerarchia dei boss. Se poi andassimo a quantificare in "soldoni" il prodotto di tutta la criminalità attiva in Italia, vedremmo che la fetta di affari in mano agli stranieri risulta ancora ridicola nei confronti dei vortici di migliaia di miliardi in cui si muove la nostra mala "doc". E cè da chiedersi se effettivamente la popolazione carceraria italiana sia davvero un esauriente criterio di valutazione quantitativa e qualitativa del malaffare italiano.
PER "RIABITARE" LA CITTÀ
Ma è mai possibile che in questo paese non si possa fare una riflessione seria, senza andare a caccia di capri espiatori, sul profondo disagio che colpisce le nostre collettività urbane? Come preoccuparsi "solo" del reato commesso senza cercarne le cause? Capire il perché la "gente" è furibonda? Forse, soprattutto poi per chi è chiamato a governare grosse realtà metropolitane, bisogna porsi linterrogativo di dove sia andata a finire quella solidarietà organica, per cui ogni componente della collettività ricopriva una funzione di coesione sociale, o ancora di che danno hanno fatto gli insediamenti frammentati di quartieri senza volto e senza anima?
Non è una novità il fatto che in tutte le città vi siano stati dei quartieri o delle zone cosiddette a "rischio", non è di ieri la denuncia della minaccia di segregazione e di emarginazione di buone fette del territorio cittadino. Ma quasi mai chi è stato deputato ad aver cura del bene comune è stato in grado di ripensare lurbanistica del proprio territorio, organizzandolo in modo tale che vi sia continuità urbana e non solo una certa contiguità di agglomerati anonimi in cui distinguere le appartenenze di ceto e di classe sociale.
Inoltre, il concetto politico di secessione è entrato anche nellorganizzazione dei rapporti interpersonali e delle relazioni sociali: si esclude in modo categorico, a priori, ogni vicinanza che non sia quella voluta; si tracciano delle linee di confine, per non essere contaminati dallaltro e quindi si persegue un proprio modello di società ristretta e preclusa in particolare ai poveri. Chi non è come "noi", deve essere mandato via e bandito dal territorio. Ciascuno deve stare a casa sua e arrangiarsi; ognuno ha il diritto di affermare i propri interessi indipendentemente da quelli degli altri; gli spazi delle libertà individuali sono definiti e delimitati dal "mio" spazio di libertà. In altre parole la società è superflua, va sciolta. È ciò che sta avvenendo nelle nostre città con buona pace degli amministratori manager, che non hanno capito che la convivenza umana non può rivestire in toto i caratteri di una impresa, ma deve mantenere dei legami di solidarietà organica, capaci di assicurare una giusta organizzazione sociale, in cui ciascuno contribuisca alla crescita e allo sviluppo del territorio.
Nemmeno centomila poliziotti potranno garantire una pacifica vita urbana a Milano, perché il problema non è solo la devianza italiana o estera che sia, ma è proprio il senso di appartenenza e di coesione che viene a mancare. E se non si producono atti amministrativi che portino a "riabitare" la città, la questione del disagio urbano è lungi dallessere affrontata; gli spazi strategici di socializzazione, quali le piazze e le stazioni ferroviarie, resteranno luoghi di aggregazione di chi ancora mantiene questi valori e le aree dismesse, ferite profonde nel tessuto urbano di ogni città, diventano dei luoghi di "non-abitazione" dove il sommerso e il grigio possono facilmente accasarsi.
Ma la miseria umana raggomitolata negli angoli più reconditi e degradati del nostro territorio, non può e non deve essere ritenuta la responsabile principale della nostra disgregazione e della nostra desocializzazione. Il tollerare poi o il favorire dei meccanismi di emarginazione e di segregazione, in nome di una sicurezza che tutto giustifica, non risolve il problema degli aspetti criminogeni dellimmigrazione. Anzi, non fa che ingrandire e rafforzare le ragioni della stessa devianza.
FRANCO VALENTI
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