Giappone: la natura e lanima delle cose
Ogni cultura ha qualcosa da insegnare alle altre e in particolare modo, secondo me, quella giapponese può aiutare noi europei a recuperare un rapporto con la natura che per molti sta diventando sempre più alieno e distorto. Forse oggi più che mai abbiamo bisogno di riscoprire quel senso di felicità primordiale che Dio aveva voluto donare alluomo quando collocò Adamo nel giardino dellEden. La natura infatti fa parte del modo con cui Dio vuole esprimerci il suo affetto e noi la stiamo sempre più escludendo dalla nostra vita. Vogliamo allora chiedere a p.Mario Riccò di illuminarci su questo aspetto della cultura giapponese. Padre Riccò infatti ha trascorso molti anni in Giappone, nonché in Brasile, riuscendo ad entrare nel mondo giapponese tanto da incarnare in sé anche il senso poetico col quale il giapponese esprime il suo rapporto con la realtà.
Padre Riccò, essendo i giapponesi scintoisti so che lo scintoismo è panteismo naturalistico - come si relazionano con la natura? Inoltre può fare qualche accenno anche riguardo la cerimonia del tè? Credo che tutti ormai hanno sentito parlare della cerimonia del "tè", dei suoi mistici silenzi e della contemplante serenità che colora, di spirituale significato ogni gesto in quella compiuto. Dettò il codice di questo rito un maestro "Zen" che si chiamava Rikyù. Di lui raccontano che, attendendo una volta un ospite di riguardo, ordinasse al figlio di pulire con cura il giardino e questi si mise al lavoro; raccattò le foglie sparse sulle aiuole, spianò la ghiaia sui viali; fece ogni angolo lindo e terso. Soddisfatto dellopera compiuta aspettava il ritorno del padre e immaginava chissà quali lodi; e invece ebbe rimproveri. Guarda come si fa disse Rikyù, e lievemente scosse i rami dei pruni in fiore: una pioggia di petali, seguendo il gioco del vento, sadagiò per terra. Così bisogna pulire il giardino; cancellando le tracce delluomo e dandogli parvenza del noncurante capriccio della natura. Qui sta il primo carattere dellarte giapponese, voglio dire la ricerca di una schiettezza che veli o nasconda ogni senso di artificio. Luomo giapponese non si contrappone alla natura, non vuole correggerla né modificarla; alla natura non comanda, ubbidisce; fa talmente parte del mondo e si sente così unito con linconsapevole fluire delle cose, che non ardisce separarsi da quellorganismo alla cui vita invece vuole aderire con passiva appartenenza. Compito dellarte non è dunque, in Giappone, architettare nuovi mondi, ove luomo rivaleggi col Creatore nellimmaginare arcane combinazioni di forme nuove. Il giapponese è soprattutto "natura"... ecco perché adatta la sua vita e la sua arte al ritmo delle stagioni; la primavera fiorisce anche nelle sue vene, ed i rigori dellinverno che ammantano i villaggi di nevosi silenzi, contristano il suo spirito dello stesso rassegnato illanguidimento delle cose: è il momento della "sabisisa": solitudine triste e rassegnata che si prova solamente in Giappone.
So che adesso i giapponesi vivono in case come le nostre. A Tokyo, addirittura in grattacieli e quindi si sono estraniati dal contatto con la natura. Ma la casa classica, come rispecchiava il senso culturale giapponese? La casa classica è lo specchio della natura; le pitture si avvicendano, a seconda dei mesi, nel "Tokonoma", piccola alcova in cui è inserito come drappo una poesia o pittura relativa alla stagione che si sta vivendo, e così pure le piante ai piedi del "tokonoma". Anche le vesti imitano i disegni e i colori che il corso dellanno traccia sulla terra. Nella casa giapponese alita il respiro del mondo. Non è come la nostra casa che isola luomo e lo circoscrive come in una fredda astrazione ove luomo trionfa, ma tace la natura; trova se stesso, ma non gli giunge lanima delle cose. A noi occidentali la natura appare come un vasto regno meraviglioso, da ammirare, ma del quale ormai, incedendovi noi da signori e padroni, non esiste più ombra di mistero. In esso tutto è chiaro, ridotto a leggi precise e fisse che svelandone lintimo moto ce ne danno il possesso. I giapponesi, invece, trascinati da un arrendevole abbandono dalle sue vicende, amano sprofondarsi in questa natura. Con affettuosa sensibilità partecipano al travaglio della vita cosmica, a quellavvicendarsi di luci, colori, languori e fremiti che noi chiamiamo ritmo delle stagioni. Luomo non subisce le stagioni difendendosene, sfuggendovi o adattandovisi, ma ne sente in se stesso germinare il misterioso processo. Se fa caldo noi ci rifugiamo in luoghi alpestri; se fa freddo corriamo dove la temperatura è mite. Il nostro insomma è un evadere le leggi del mondo. Il giapponese non protegge la casa dal rigore invernale o dallafa estiva: vuole partecipare ai brividi della natura, ai suoi languori e alle sue febbri. Con pareti sottili di legno, la casa classica giapponese, senza vetri, è un tetto più che un riparo. Linterno poi ci colpisce per la sua povertà nuda che è sfarzo. Una certa parvenza di sfoggio lo si può eventualmente trovare soltanto nel "tokonoma", quadro magico evocatore della stagione che a volte mostra un ramo di ciliegio in fiore, un crisantemo, oppure un ramo invernale la cui nudità un qualche uccello smarrito riscalda. Ci sono poi gli alberi nani, i famosi "bonsai". Copie in miniatura che riproducono i contorcimenti e le nodosità delle piante millenarie sulle quali si sono provate le tempeste e i venti. È così che il "tokonoma" intorno a cui si svolge la vita domestica, diventa una proiezione del mondo, sulla quale ruotano le vicende del tempo. Così luomo, pur nello stretto spazio della casa, partecipa al ciclo delle stagioni, ne avverte il ritmo. Si racconta che nel mezzo dellinverno, un signore di Yamashima si recasse improvvisamente nella sua villa: cera tanta neve per terra. Scese da cavallo e bussò alla porta del giardino, e già spazientiva per lattesa insolentemente lunga, quando, ansimante e correndo lungo la siepe che cingeva la villa, spuntò il domestico, il quale ai rimbrotti si scusò di quel ritardo: aveva fatto un gran giro perché le sue orme non affondassero nel verginale biancore della neve e il padrone potesse goderne la serenità immacolata. Una poetessa giapponese del X sec. ha scritto:
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