"Giuseppe, prendi il bambino e fuggi"
"Otto anni di guerra in un piccolo paese come la Sierra Leone, nell'Africa Occidentale: quattro milioni e mezzo di gente, divisa in tante tribù, ciascuna con la sua lingua, le sue tradizioni. Sono arrivato missionario nel 1950, quando ancora vi dominavano gli inglesi. Ma perchè questa guerra non vuole finire? Me lo domando continuamente! Sono un missionario saveriano di 83 anni ed ho 48 anni di presenza nella regione del Nord. Che razza di guerra mai questa? Ce lo domandiamo tra noi missionari, ogni volta che ci incontriamo per le adunanze pastorali. E' una guerra orribile, satanica, che dilania la popolazione ogni giorno; sono episodi di una crudeltà che ti agghiaccia. Mutilano la gente dei villaggi, tagliano le mani, le orecchie, il labbro inferiore; vengono seviziate, uccise le donne ancora con il bambino nel ventre; hanno bruciato vivi dei capi villaggio, dei commercianti; hanno ucciso bambini buttandoli nell'acqua bollente, costretto dei vecchi a trangugiare escrementi. Perchè questo scoppio di un odio che non si ferma, che ti lascia muto a lacrimare in silenzio? E' gente che io conosco, che mi sono cari, come papà e mamma. Sono odii di razza, le cui origini vanno indietro nei secoli passati, sono i diamanti del "Kono country", che ribelli e soldati regolari si contendono sbranandosi come iene fino all'ultimo sangue, pur di non perdere i giacimenti preziosi. Ora la provincia del Nord che sta per essere inghiottita dalle bande ribelli. Le strade sono sbarrate ogni cinque, dieci miglia. I missionari sono obbligati a partire; c' è desolazione nell'aria. Hanno bruciato delle residenze di missione; la bufera di fuoco scatenata sta avanzando sempre più attorno ai nostri centri. I ribelli hanno giurato di arrivare alla capitale Freetown entro breve tempo. Stiamo lasciando le altre missioni: chiese, scuole, centri sanitari. Si parte! Ci siamo adunati per un ultimo consulto; da Roma, dalla Direzione Generale venuta la decisione: partire! Saremo una trentina a dover sgomberare; faccio parte del primo scaglione: otto padri. Siamo arrivati a Lungi, dov' l'aeroporto, chiuso da tempo; la strada pessima. Passiamo dodici posti di controllo tenuti dai soldati nigeriani e dai Kamajor - volontari senza alcuna preparazione militare, con coltellacci e gran numero di amuleti, penzolanti da tutte le parti "che li rendono invisibili al nemico". Ho ancora in mente lo spettacolo dell'evasione da Makeni in massa: una marea di gente disperata che fugge, si pesta. E' notte, hanno piccole lampade a petrolio, torce di stracci imbevuti di petrolio, candele. Scorgo mamme con il bambino sulla schiena, il fagotto di riso in testa, per mano un altro figlio e un altro dietro, silenziosi, con gli occhi sbarrati. Dove vanno? Nella foresta, lontano, più lontano che possono per salvare la vita: un fiume umano, enorme che scappa; ha già sofferto, ha sempre avuto lo spettro della fame, della paura. Ma gente buona, semplice; hanno portato pazienza tutta la vita; non si lamentano: soffrire fa parte della loro vita. C'è da piangere, mentre guardo e passano. Arrivati a Lungi, siamo pronti a partire. Hanno letto i nostri nomi, esaminato i passaporti, controllato altri europei che lasciano il paese e i loro affari. Uno a uno entriamo nell'"Ercules", aereo militare inglese: una sagoma enorme, una lunga galleria all'interno. Ci sediamo stretti, uno vicino all'altro, su sgabelli bassi, con il nostro fagottino personale ai piedi. Attaccano i motori: un rumore assordante, altissimo; ti spacca i timpani; ti danno i batuffoli di cera per proteggere l'udito. Vigilia di Natale: il 24 dicembre; quattro ore di volo fino a Dakar, poi Parigi, Venezia. Il Figlio di Dio esce dall'eternità per entrare nel mondo; ma da Betlemme dovr presto scappare in Egitto. Restiamo con questo pensiero mentre siamo sballottati in aria da questo strano, assordante, mobile da guerra. Andamo in Italia, che come l'Egitto per Gesù, Maria e Giuseppe. Aspettiamo una parola dall'Angelo di Dio per dirci: "Tornate indietro a "casa", perchè chi voleva uccidervi è già morto". p.Pietro Serafino Calza |