Donne D'Islam
L'AGONIA DELLE DONNE DI KABUL
Esattamente un anno fa, in occasione della festa delle donne (8 marzo), le Nazioni Unite lanciarono la campagna Un fiore per le donne dell'Afghanistan. Ma, a distanza di 12 mesi, la situazione è sempre più tragica.
È lo stesso diritto ad essere donne che nel nostro paese oggi non c'è più, dice Huma Saeed, un'attivista dell'Adar (Associazione di donne afghane rivoluzionarie) rifugiata in Pakistan.
Chiediamo all'Amministrazione Clinton di fare di più, ha detto una leader femminista davanti al Senato americano, per le pesanti responsabilità che gli Stati Uniti hanno in questa vicenda.
Nascosta sotto ampissime vesti di colore blu, una donna esce dall'ombra e sussurra con un filo di voce, in un inglese fortemente accentato: "Sono un'educatrice. Avresti un lavoro per me, non a Kabul, in provincia?" L'odore rancido delle fogne all'aperto impregna l'aria di questo caldo pomeriggio e il latrare dei cani randagi in lontananza fa sì che la domanda della donna sia poco più che un bisbiglio. Un'altra donna fuori da una moschea guarda di sfuggita uno straniero, poi china di colpo la testa quasi a volersi seppellire all'interno del suo burqa1 e si fa avanti con la mano tesa: "Non sono una che fa l'elemosina, ma non ho scelta. Ho bisogno di cibo per la mia famiglia", dice una voce da dentro.
È questo, oggi, il destino terribile delle donne dell'Afghanistan. Tutto è iniziato nel settembre 1996, quando i Taliban - una milizia islamica ultraconservatrice - hanno preso il controllo della capitale Kabul e di due terzi del paese. Precisamente il 27 di quello stesso mese i loro mullahs (leader) hanno emesso un editto che impediva alle donne e ragazze di lavorare e di andare a scuola. L'effetto della disposizione era immediato: coloro che hanno tentato di uscire ugualmente, il giorno dopo, sono state fermate, frustate e ricondotte a casa.
Da quel giorno molti altri editti sono stati emessi dai Taliban; tutti restringono pesantemente i diritti umani del popolo afghano e in particolare delle donne. La tv, la musica, le macchine fotografiche, i capelli corti, il fumo, le fotografie che ritraggono soggetti di sesso diverso, sono vietate. I taxisti vengono frustrati, se accompagnano una donna sola. Sono stati chiusi i bagni pubblici, ritenuti dagli "studenti" anti-islamici, e questo decreto si ripercuote tuttoggi su una società le cui abitazioni sono prive di elettricità e di acqua calda. Quel che è ancora più grave, è che cinquemila anni di cultura siano stati distrutti tramite la messa al rogo di dipinti, di libri, e la distruzione di statue.
Pochi lo sanno. Ma il 21 dicembre 1996 le donne di Herat organizzarono una manifestazione di massa contro i Taliban, rivendicando il loro diritto allo studio e al lavoro. Il giorno seguente, molti uomini si unirono alla protesta. Lunico risultato di questa coraggiosa presa di posizione fu però questo: 20 donne arrestate e circa 40 ferite.
SEPOLTE VIVE
È la condizione femminile, dunque, ad essere drammaticamente peggiorata: prima del 26 settembre 1996 le donne erano il 70% degli insegnanti, il 40% dei medici, il 50% dei funzionari governativi e il 50% degli studenti universitari. Facevano il servizio militare e centinaia di loro erano nella polizia. Oggi, una donna può uscire di casa soltanto se accompagnata da un suo parente maschio. Non può portare un vestito diverso dal burqa - lungo fino alle caviglie se no sono frustate - né scarpe col tacco perché "il rumore corrompe gli uomini", né trucco sul viso. Il fatto poi di essere poveri e di non potersi permettersi un burqa, che già nell'ottobre '96 costava 33 dollari (e cioè tre volte lo stipendio di un pubblico funzionario), non basta per evitare una punizione.
Sembra proprio che le donne abbiano perso tutti i diritti: dopo quello al lavoro e all'educazione, il diritto alla salute. Non possono essere infatti visitate o operate da chirughi-uomini e le donne-chirurgo praticamente sono scomparse dagli ospedali. Nel frattempo, i reparti psichiatrici si vanno riempiendo. "Il numero di pazienti-donne è spaventosamente aumentato nellospedale per malati mentali di Kabul", conferma il dottor Shaheen Shah Wasah, "il loro più grande nemico resta la depressione". Ma ci sono rapporti, non documentati, che parlano di un tasso di suicidi al femminile in forte crescita. Wasah è daccordo. Sa bene che i casi di cui è venuto a conoscenza lui (relativamente pochi), rappresentano solo la punta di un iceberg. "NellAfghanistan islamico, il suicidio viene considerato una cosa vergognosa", ci spiega, "quindi si seppelliscono le vittime velocemente, lontano da occhi indiscreti".
Violazioni su violazioni in un regime in cui anche il diritto al ricorso legale è di fatto riservato agli uomini: si pensi che la testimonianza di una donna, in tribunale, vale esattamente la metà di quella di un uomo. "È lo stesso diritto ad essere donne che nel nostro paese oggi non c'è più", dice Huma Saeed, un'attivista dell'Adar (Associazione di donne afghane rivoluzionarie) rifugiata in Pakistan, "dal non aver più diritto di parola al non poter mostrare il proprio volto in pubblico".
Ed è così che a circa 30mila vedove prive di qualsiasi fonte di reddito non rimane che un modo per sopravvivere: mendicare. O farlo fare ai propri figli maschi. Secondo un'organizzazione umanitaria, i bambini di strada sarebbero almeno 28mila nella sola capitale. Chi non ha figli maschi, siede invece nelloscurità della propria casa contando sugli aiuti, che possono essere forniti solo tramite intermediari uomini. Oppure si nutre di erba, di bacche, mentre fanno la loro comparsa strane malattie della pelle dovute alla mancanza di vitamine, proteine, e della luce del sole.
Quindi si soffre la fame, oggi, in Afghanistan. Soprattutto dopo che l'Unicef e altre agenzie delle Nazioni Unite hanno sospeso, a metà novembre, la distribuzione degli aiuti nel sud del Kandahar. La motivazione è che i Taliban minacciano anche membri dello staff.
UN FIORE PER LE DONNE DELL'AFGHANISTAN
Dalla malnutrizione ai sempre più frequenti casi di depressioni incurabili (per l'assenza dei farmaci) e di suicidi; dalle torture alle sparizioni e massacri. Storie di orrori senza fine, che il resto del mondo in particolare, l'Onu e gli Stati Uniti oggi non può più tollerare. Di questa opinione è anche Mavis Leno2, un'esponente della Maggioranza Femminista recentemente intervenuta davanti al Senato americano. "Chiediamo all'Amministrazione Clinton di fare di più", ha detto, "per le pesanti responsabilità che gli Stati Uniti hanno in questa vicenda: per anni il nostro paese ha venduto armi e fornito assistenza militare ai gruppi Mujahideen contro i soldati sovietici. I Taliban sono uno di questi gruppi di Mujahideen con base in Pakistan". Va ricordato poi che due degli alleati americani nell'area, appunto il Pakistan e l'Arabia Saudita, hanno riconosciuto il governo di Kabul e lo sostengono sia finanziariamente che con forniture di armamenti. "Basta armi e basta soldi ai Taliban": è questo, in sostanza, quello che Clinton dovrebbe chiedere ai due paesi, secondo la leader femminista.
Il presidente americano lo farà? E i suoi alleati accetteranno il consiglio? È difficile dirlo, anche perché ci sono dei grossi interessi in ballo: la costruzione di un gasdotto ed oleodotto multimiliardario dal ricco Turkmenistan attraverso l'Afghanistan verso il Pakistan. La ditta americana Unocal, con base in California, è entrata nel consorzio con il 46,5% del capitale. E i lavori avrebbero già dovuto iniziare lo scorso dicembre, secondo l'agenzia stampa Reuters. Recentemente i dirigenti dell'Unocal hanno dichiarato di non procederanno, finché l'Afghanistan non avrà un governo riconosciuto a livello internazionale. Questo è vero. "Ma è anche vero che i Taliban guadagnerebbero fino a 100 milioni di dollari l'anno soltanto in royalies", scrive il quotidiano Washington Post. "E dunque faranno tutto il possibile per non perdere la magnifica occasione".
È quindi essenziale che non solo l'Unocal, ma qualsiasi azienda americana o occidentale, sospenda le importazioni dall'Afghanistan fino a quando i diritti umani fondamentali delle donne non verranno nuovamente tutelati. Esattamente un anno fa, in occasione della festa delle donne (8 marzo), le Nazioni Unite lanciarono la campagna Un fiore per le donne dell'Afghanistan. A distanza di 12 mesi, a Kabul e dintorni, le case hanno sempre le finestre dipinte di colori scuri per oscurare la vista e le donne continuano a scrutare la realtà da dietro una fessura.
ALESSANDRA GARUSI
LA "MENTE" DEI TALIBAN
Si chiama Mullah Omar il leader spirituale dei Taliban. Fu infatti la sua visione di uno stato islamico puro ad ispirare i reclutamenti, specie fra i rifugiati afghani in Pakistan durante loccupazione sovietica.
È un uomo schivo, che appare assai di rado in pubblico. Si dice che sia stato a Kabul una sola volta. Oggi vive, praticamente da recluso, alle sorgenti di Kandahar al confine col vicino Pakistan. Da lì controlla il 90% del territorio.
A chi lo critica, ricorda che i precedenti governatori di Kabul, guidati dal presidente rovesciato Burhanuddin Rabbani, distrussero la città in quattro anni di dure lotte fra fazioni, nelle quali persero la vita almeno 50mila persone. Soprattutto donne e molti bambini. Le stesse categorie di persone che sono particolarmente colpite oggi.
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