LA PROPOSTA DELLA
TEOLOGIA INDIA
PER IL TERZO MILLENNIO

 

ELEAZAR LÓPEZ HERNÁNDEZ

Facendo seguito ai due interventi di mons. Samuel Ruiz sulle "culture indie e il soffio dello Spirito (ottobre e novembre 98), presentiamo il contributo di un teologo tra i più impegnati nella "teologia india", appartenente al popolo zapoteca di Tehuantepec, Messico.
Secoli di sfruttamento, di segregazione, di guerra e di resistenza hanno ferito la nostra capacità di lotta, ma non distrutta.
Per alcuni è una bestemmia che lindio si sia alzato in piedi e osi alzare la voce per condannare lattuale sistema ingiusto e per esigere un futuro dignitoso per tutti.
Noi indios non siamo un problema, ma un aiuto per la soluzione dei problemi attuali. Nella nostra esperienza storica e spirituale troviamo risposte che mettiamo a disposizione anche degli altri popoli.
La cultura indigena è diventata un riferimento obbligato per quanti desiderano un mondo più giusto per il futuro.



 

A dieci anni dalla morte di mons. Leonidas Proaño, scorgiamo più chiara la "risurrezione indigena" da lui profetizzata: gli indios "hanno cominciato ad aprire gli occhi e vedere; hanno iniziato a sciogliere la loro lingua e recuperare la loro parola con coraggio; hanno cominciato ad alzarsi in piedi e camminare; hanno cominciato a organizzarsi, a porre atti che saranno di enorme importanza per loro, per i paesi dellAmerica e per il mondo".
Ci troviamo, come ha detto un altro profeta, mons. Samuel Ruiz, in un kairós che ci scuote e ci dà vita nuova. Possiamo affermare che la Ruah della Genesi aleggia di nuovo sopra il caos attuale, per trasformarlo in seno materno che generi forme più umane di vita.
Noi indios avvertiamo questo passaggio creatore e liberatore di Dio tra noi. Per la forza dello Spirito che ci muove, possiamo camminare senza paura sulle acque del neoliberismo, come fece il Signore Gesù sul mare agitato di Genezaret. E possiamo invitare altri fratelli a camminare con noi sopra le onde minacciose dei tempi moderni: possiamo far sì che Cipactli, energia del caos originario, si trasformi di nuovo in montagne solide, in fiumi e lagune feconde.

CI SONO MOTIVI DI SCORAGGIAMENTO, MA SIAMO POPOLI DI SPERANZA

Laffermarsi del neoliberismo ha aggravato la situazione dei popoli indios. Al secolare abbandono, allemarginazione e allo sfruttamento delle risorse, si sono aggiunte le politiche indigeniste di integrazione forzata. Vengono imposti schemi che escludono i nostri popoli dalla vita nazionale con progetti di fatto etnocidi e perfino genocidi, oppure li costringono a svolgere ruoli indegni, a scopo turistico o di folklore. Aggressioni e massacri impuniti di comunità indigene a causa di interessi macroeconomici, o semplicemente per razzismo inveterato, si sono moltiplicati: basti pensare al Guatemala degli anni 801 e al Chiapas negli anni 902.
Noi indios richiamiamo alla memoria i testi sacri dei nostri popoli, che parlano di angustie del tempo che ci sovrasta. Ad esempio, racconta il libro sacro dei Maya: "Salirono su una montagna tutti i Quiché, in consiglio. Erano riuniti in attesa dellalba. La loro sofferenza era grande a causa della lunga carestia. Per questo digiunavano, quella notte, ed erano tristi. Vegliavano senza dormire e attendevano il sorgere del giorno e dicevano: siamo infelici& siamo venuti per veder sorgere il sole, ma il sole non sorge& siamo abbandonati"3.
La stessa sensazione di angustia è da noi sentita ora: la vita dei poveri non soltanto si inaridisce perché non riceve pioggia, ma è attaccata direttamente, è spazzata via. Lavanzata della modernità odierna è molto più grave e mortifera delle aggressioni di epoche anteriori, perché intacca la sorgente stessa della vita dei nostri popoli: la terra, la comunità, la cultura e la fede. Molti fratelli "hanno perso lo spirito" e la speranza. Constatando la forza enorme del mostro, alcuni arrivano a concludere che "non cè niente da fare", è la fine.
Ma noi indios abbiamo ragioni solide per continuare a sperare. Cinquecento anni di rifiuto, di abbandono, di sfruttamento e adesso di esclusione, sono molti; questi anni di guerra e di resistenza hanno ferito la nostra capacità di lotta, ma non lhanno distrutta. Nei pochi angoli che ci rimangono, conserviamo la forza spirituale ereditata dagli antenati.
Crediamo fermamente che anche se il Sole si è nascosto e le ombre della notte stanno facendo pesare le loro conseguenze disastrose, il nuovo Sole nascerà per portarci la vita. Come i nostri antenati, lo aspettiamo attivamente nella veglia, nella preghiera e nel digiuno. La nostra speranza ha un orizzonte infinito, non si esaurisce in qualche congiuntura favorevole. Il testo sacro maya che ho citato dice che alla fine i nostri antenati ricevettero quello che pazientemente avevano aspettato: "La stella del mattino apparve, per prima: allora aprirono i doni che avevano portato& Piangevano di gioia, ballavano e bruciavano incenso. È stata laurora per i nostri popoli. Quando apparve il Sole si rallegrarono anche tutti gli animali, piccoli e grandi& E tutti cantavano e gridavano& stavano in ginocchio i signori e i loro servi& il Sole era apparso per tutti".

LA PAROLA DEGLI INDIOS ORA È ASCOLTATA

Quando nel 1979 il papa Giovanni Paolo II prese contatto con gli indigeni, poté verificare labbandono e lo sfruttamento imposto loro da quanti hanno in mano il potere economico e politico, e si impegnò con loro ad essere "la vostra voce, la voce di quelli che sono messi a tacere". Limpegno del papa partiva dal fatto che allora non si sentiva la voce degli indigeni, non perché noi non parlassimo, ma perché non cera chi desse importanza alla nostra voce. Nella pastorale indigenista degli anni 70 eravamo stati descritti come persone carenti di voce e di capacità di comunicazione. Eravamo "i più poveri tra i poveri"4. Perciò si cercava gente non-indigena che ci proteggesse, che parlasse per noi e agisse a nostro favore: così crebbero attività indigeniste di taglio assistenzialista e paternalista da parte della chiesa.
Negli anni 80, con la nascita del protagonismo indio nella promozione umana e nellevangelizzazione, cominciò a configurarsi la pastorale indigena e la chiesa è diventata sempre più capace di ascoltare e di assumere la voce degli indigeni, in quanto popolo e in quanto chiesa. Come Lazzaro, siamo usciti dalla tomba centenaria, con la forza del Risorto. E questo ha smosso la società e la chiesa stessa, perché pochi credevano nella risurrezione dellindio come frutto dellazione di risveglio di uno che in realtà non era morto ma solo addormentato. Erano molti a pensarla come le sorelle di Lazzaro: il loro fratello, da tempo nella tomba, aveva ormai "un cattivo odore"&
I responsabili della morte degli indios, che avrebbero voluto mantenerli per sempre in quello stato, sono rimasti stupiti del fatto che lindio si fosse levato: vorrebbero non solo rimandarlo nella tomba, ma metterci dentro anche coloro che hanno osato risuscitarlo. Per loro è una bestemmia il fatto che lindio si sia alzato in piedi, sovvertendo lordine stabilito dal sistema, e osi alzare la voce per condannare la società ingiusta e per esigere la costruzione di un futuro dignitoso per tutti5.

SUL TEPEYAC ABBIAMO COLTIVATO FIORI

Secondo alcuni, noi non avremmo nulla da offrire alla società: sulle nostre montagne ci sarebbero solo pietre e spine. Non sanno che durante linverno che ci hanno imposto, noi indigeni sul nostro Tepeyac abbiamo coltivato svariate piante di fiori, belli e profumati. Abbiamo valori che danno senso alla nostra esistenza e alla nostra speranza. Sui nostri altopiani noi incontriamo il Dio dei nostri padri, "il Dio per cui viviamo, il Creatore degli uomini, il Padrone di tutto ciò che esiste, il Vicino e Prossimo, il Signore del cielo e della terra"6, cioè il Dio della vita, che non ci ha mai abbandonato. Da quanto abbiamo visto e udito sappiamo che questo Dio nostro e dei nostri padri è lo stesso Dio di Gesù. Per questo le strategie di morte contro di noi non hanno avuto e non avranno nessun successo. È quanto abbiamo esposto nellincontro di Cochabamba:
"Di fronte al veleno del materialismo economico e tecnicista, che pretende di distruggere il giardino dei fiori, dobbiamo rafforzare lenergia delle nostre radici e la forza dei nostri rami, con lautodeterminazione dei nostri popoli indigeni, con il rafforzamento dellorganizzazione, con la diffusione della sapienza indigena, con la riconquista degli spazi persi nella società, e con azioni efficaci che assicurino la partecipazione decisiva dei popoli indigeni nella preparazione delle leggi che li riguardano. Vogliamo produrre un vero cambiamento, che edifichi la casa grande dove possano vivere tutti i popoli dellumanità, in un modo più degno, più umano, più divino. Riconosciamo che lunico Padrone del giardino è Dio. Noi siamo i giardinieri.
Con questa convinzione, coscienti che ci sono altri popoli diversi da noi, vogliamo offrire allAmerica latina senza pretese, senza arroganza, attraverso il dialogo labbondante raccolto dei nostri fiori: la solidarietà, la libertà vera, il rispetto reciproco, il rispetto della natura, la fede in Dio. Per ottenere questo raccolto, dovremo mettere radici sempre più profonde nella nostra cultura, ritornare continuamente alle sorgenti della nostra sapienza e scoprire nella vita dei nostri popoli, le manifestazioni di Dio, Madre e Padre, che si è poi rivelato in Cristo Gesù.
Riaffermiamo la nostra speranza, irrorata dal sangue di migliaia di indigeni martiri: gli alberi daranno frutto, i fiumi non si prosciugheranno, i monti rinverdiranno; nella nuova aurora, tutti i popoli, uniti, danzeremo la danza della vita in pienezza, mangeremo e berremo insieme, gustando quanto Dio, Madre e Padre, ci dà in dono".

GODIAMO DEI NOSTRI FIORI: LA FESTA

La situazione economica e laggressione alle comunità indigene rendono difficile il mantenere le tradizioni, ma la dimensione religiosa della resistenza india ha una forza insopprimibile. La festa ha in questo un ruolo indispensabile. In ogni festa ci rinnoviamo come famiglia grande che condivide la stessa cultura, la stessa energia spirituale e gli stessi ideali. Nella condivisione della festa trasformiamo i problemi e la sofferenza quotidiana in sorriso, danza e cibo, che ci incoraggiano nella speranza del mondo nuovo, più consono con quello che hanno sognato e raccontato i nostri antenati. Nelle feste indie "la montagna e la terra riarsa, piena di pietre e di spine, grazie al nostro lavoro, si trasformano in Xochitlalpan, giardino di ogni specie di fiori rari, dove anche le pietre sembrano smeraldi preziosi e la terra risplende con i colori dellarcobaleno"7.
Noi indios proviamo gioia nel coltivare sulle nostre montagne i fiori della nostra cultura. Godiamo del loro profumo quando li portiamo nel nostro grembo come perle del nostro linguaggio. I nostri saggi e i nostri anziani provano un vero piacere nel trasmetterli alle nuove generazioni. Ci dà gioia condividere ciò che abbiamo, anche con gente straniera che viene a visitarci. Per tradizione, lospitalità degli indigeni non ha frontiere. Ogni persona è sempre benvenuta, perché il forestiero o il diverso per noi è teúl8, mandato da Dio, con il quale si deve condividere in solidarietà, kórima9 o guelaguetza10. Per questo nel passato i colonizzatori hanno approfittato dei nostri antenati e li hanno spogliati dei loro beni, scambiando oro con specchietti11.

CONDIVIDIAMO I NOSTRI FIORI

La cultura indigena è diventata un riferimento obbligato per quanti desiderano un mondo più giusto per il futuro. Ma ai più la voce degli indios risulta incomprensibile. Anche se vivono vicino a noi, non ci conoscono, non si sono mai interessati della nostra vita. Il nostro linguaggio è simbolico e lo capisce soltanto chi ha bevuto con noi alle sorgenti della nostra cultura millenaria. Questa forma di comunicazione, anche se sembra rudimentale, ha di fatto più potenzialità espressiva perché è il linguaggio delle realtà profonde e trascendenti dellamore, della speranza, della religione. I miti e i riti indigeni, nella loro semplicità, hanno una carica di contenuti umani che difficilmente potrebbero essere espressi in un linguaggio discorsivo o scientifico: perderebbero la loro forza e lo loro vivacità.
Oggi è necessario recuperare, anche per i moderni, questa semplicità e profondità del linguaggio mitico-simbolico. Perché è il modo più appropriato per esprimere il mistero del nostro essere umano e delle realtà divine.
Il linguaggio indigeno è comprensibile soltanto a chi si avvicina e partecipa, con rispetto e sintonia di spirito, alla vita del popolo: ci si deve spogliare di ogni atteggiamento di arroganza. Come ha fatto Mosé allentrata dellOreb, quando il Signore gli disse: "Non avvicinarti di più, perché il luogo che calpesti è terra sacra". Lo scambio di doni, richiesto dallinculturazione missionaria e dal Vangelo, può realizzarsi solo se lavvicinamento si fa in ginocchio, cioè in un dialogo umile e rispettoso, per dare e per ricevere, senza imporre nulla. Questa umiltà e rispetto non sono ancora un atteggiamento abituale nei membri della chiesa.

LA "CASA GRANDE"

Il significato della proposta indigena dei nostri giorni, non ha nulla a vedere come ci accusano alcuni con romantici ritorni al passato. Indica, invece, il desiderio di contribuire a realizzare la nostra identità umana fondamentale: essere fratelli tra di noi, figli della Madre Terra, macehualtzintli, cioè persone degne della sofferenza provata da Dio nel crearci12.
La nostra vocazione è di trasformare, con Dio, il caos prodotto dagli interessi disumanizzanti imposti al mondo, e di mettere armonia ed equilibrio tra realtà contrapposte, facendo incrociare la strada degli uomini e delle donne con la strada di Dio13.
Facendo questo non pensiamo soltanto a noi. Le nostre proposte non sono solo per un gruppo, ma per tutti gli uomini. Desideriamo un mondo "dove possiamo stare tutti in dignità e giustizia"14. La Oikoumene india è la casa grande15 che ospiterà tutti. È Chicomostoc, o luogo delle sette grotte16, dove la diversità (sette grotte) non divide né provoca scontri, ma unisce ed affratella. I quattro angoli delluniverso si legano tra loro nella croce universale, il cui centro è la sintesi di tutto: lumano, il divino, il cosmo.
Nella misura in cui si coglie la proposta india, si scopre che essa non si oppone alle altre impostazioni. I popoli indios, attraverso unevangelizzazione inculturata, si incontreranno con se stessi e con il futuro che Dio ha seminato nelle loro culture fin dallantichità. E prendendo posto, con gli altri popoli, alla tavola comune della vita, essi apriranno con fiducia le loro mani per dare e per ricevere i doni con i quali Dio ha benedetto tutte le nazioni.
Il presente costituisce un grave rischio perché soffriamo la pressione della globalizzazione, ma è anche una magnifica opportunità per sognare e per costruire, a partire dal micro e dal quotidiano, schemi nuovi di società e di chiesa, che siano effettivamente plurietniche e pluriculturali, dove possiamo vivere unarmonia e una pace vera, accettando e dando valore alle nostre legittime differenze.

 

 

NON SIAMO UN PROBLEMA
MA UN AIUTO

Nel Terzo incontro di teologia india, a Cochabamba nellagosto 1997, abbiamo affermato che la presenza indigena è come unoasi di spiritualità, capace di portare freschezza e vita nella siccità strutturale che ci domina. Noi indios siamo popoli di speranza: speranza che, invece, si è andata esaurendo nel cuore del sistema dominante.
Noi indios non siamo "un problema", ma un aiuto per la soluzione dei problemi attuali. I nostri popoli trovano, come in passato, nella loro esperienza storica e spirituale, risposte umane che vale la pena raccogliere e mettere a disposizione di altri popoli.
Di fronte a coloro che nutrono riserve nei confronti della teologia india, i partecipanti allincontro hanno mostrato, con la schiettezza di chi ha il sapore dellesperienza, la solidità del processo di rielaborazione della sapienza religiosa dei nostri popoli e la sua capacità di offrire elementi atti ad aiutare a ricostruire la nostra identità umana in un stretto vincolo con Dio, Padre-Madre di tutti i popoli.

 

 

LA RESISTENZA DEI POVERI

Agli occhi della fede, la risurrezione degli indios è una prova che Dio è dalla parte della causa india. È lesperienza che Mosè ha fatto di Dio nel deserto, con il roveto che bruciava. I rovi sono quasi lunica pianta che riesce a vivere nel deserto: sono il simbolo dei popoli nomadi, in un certo senso di tutti i poveri.
Per i potenti, i rovi non sono che sterpaglia, destinata al fuoco: nel progetto neoliberista che si sta imponendo in Messico e negli altri paesi poveri, è previsto che sarà coinvolto solo il 30% della popolazione, quella qualificata come "produttiva"; il resto, indigeni, campesinos, neri e meticci, è la popolazione "eccedente". Ai fini della macroeconomia è sterpaglia che può sparire, bruciare.
Mosè arriva alla conoscenza di Dio non a partire dal fatto che i rovi bruciavano, ma quando nota che i rovi non si consumavano e ne scopre il motivo: perché Dio è colui che sostiene la vita del povero, sconvolgendo i progetti dei potenti.
È quanto succede ai nostri tempi: il sistema ha decretato la morte dei poveri ed ha acceso i fuochi dellintolleranza, xenofobia, razzismo, aggiustamenti strutturali, misure economiche, globalizzazione delleconomia, privatizzazioni, controllo delle nascite& Il fuoco è alla massima potenza, ma i rovi non si consumano. La logica umana non può capirlo: i poveri hanno una resistenza che si spiega solo perché Dio è nella loro lotta.

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