LE INDICAZIONI DI BELLARIA
ALLE NOSTRE CHIESE

MEO ELIA

Che cosa dice la missione ad gentes alla chiesa italiana
che al Convegno di Palermo si è proposta
"il coraggio della missione"?

 

 


 

Anche le nostre chiese devono sentire il bisogno di imparare a diventare aperte alla relazione con laltro.
La missione chiede alla pastorale delle nostre parrocchie di lasciare i fronzoli e di andare allessenziale. Si dà troppo per scontata la decisione personale di seguire Cristo e di essere suoi discepoli.
Anche se non possediamo ancora gli Atti del Convegno missionario nazionale di Bellaria e la nostra riflessione si muova, quindi, a partire dagli scambi di impressioni, da quanto è stato ascoltato nelle assemblee plenarie e dallangolatura degli ambiti a cui ciascuno ha preso parte è possibile cogliere che cosa il Convegno ha indicato alle nostre diocesi, parrocchie, movimenti, associazioni.
Vale anche per loro quanto abbiamo constatato a proposito della missionarietà della chiesa italiana globalmente presa: prima ancora di suggerire attività particolari, la missione ad gentes interpella direttamente lo stesso "modo di essere" della chiesa, la coscienza che si ha del ruolo dei cristiani nel mondo, lo stile che è chiamato a vivere la loro presenza nella società.
Cioè: proprio perché i metodi pastorali possano davvero riorientarsi in funzione dei non cristiani, sia nel proprio territorio che in dimensioni universali e questo non solo come "un dovere aggiunto", la missione va a toccare il senso stesso della chiesa, richiamando con forza che la finalità di tutta la sua azione non è lei stessa, ma qualcosa più grande di lei e oltre i suoi orizzonti, il Regno di Dio.
Non solo: non basta dire che la missione è la natura stessa della chiesa; occorre che non ci siano ombre di ambiguità su cosa intendiamo per "missione". Al Convegno è stato detto che certe forme di "Rambismo", di protagonismo ecclesiale, di pretese egemoniche sono degenerazioni della missione. In altre parole, perché il rapporto delle nostre chiese con i non cristiani, vicini e lontani, non sia sullo stile dei rapporti abituali del nostro mondo ma di quelli del Vangelo, la missione richiama la "qualità evangelica" che la presenza dei cristiani è chiamata ad avere nella società.
"Si tratta di atteggiamenti interiori più che di tecniche operative pratiche" osservava mons. Marcello Zago, segretario della Congregazione per levangelizzazione dei popoli, nella sua relazione di Bellaria. A premessa dei "dieci atteggiamenti interiori" da lui richiamati, notava: "Con questo non si intende canonizzare tutto ciò che si fa e si vive nei "paesi di missione". Nelle missioni non mancano né sbagli né limiti. Neppure si reclama che si deve ripetere nel nostro contesto ciò che si fa in quello dei paesi di missione. La missione ad gentes può indicare certi sentieri, perché è stata costretta a percorrerli per prima, affrontando difficoltà, correggendo sbagli, confermando esperienze positive. Questo cammino percorso non è innanzitutto frutto del saper fare o della generosità dei missionari, ma è frutto delliniziativa dello Spirito che ispira e guida la missione, come appare nella chiesa primitiva.

QUATTRO TESTIMONIANZE "FORTI" DELLA CHIESA MISSIONARIA

A Bellaria sono echeggiate quattro forti esperienze che qualificano la chiesa missionaria dei nostri tempi: la testimonianza del martirio, la testimonianza della chiesa povera e dei poveri, la testimonianza della missione nella debolezza, la testimonianza dello spirito del dialogo. Ci sono dei denominatori comuni a tutte queste esperienze, altamente indicativi per la "qualità evangelica" della missione, che vale la pena evidenziare.

Il martirio

È importante cogliere le caratteristiche del martirio attuale: la più evidente è che si tratta, come disse Paolo VI, di un "martirio della carità". Mentre prima il martire era ucciso "per odio alla fede", ora lo è perché, volendo seguire Cristo "ama i fratelli" fino a dar la vita per loro. Le forme di questo amore sono tante: dalla difesa dei diritti di chi è derubato e schiacciato dai potenti, allaffermazione della dignità di ogni persona anche se debole, alla condivisione di vita dei poveri e la solidarietà di destino con chi è vittima della violenza ingiusta. Il voler essere "segno della vicinanza di Dio" e "segno di speranza" sono le espressioni più ricorrenti nelle decisioni di chi, pur sapendo di mettere a rischio la propria vita, decide di "rimanere" dalla parte delle vittime.
Questo "rimanere accanto" ai fratelli fino al dono totale di sé da parte dei martiri, è qualificato da alcune chiare connotazioni evangeliche: avviene non nellarroganza, ma in una disarmata debolezza. Il martire non è un "eroe", uno che si sente forte di una sua forza: è uno debole a cui, per dono di Dio, è data la grazia di partecipare alla condizione di Cristo "con le forze di Cristo". Il martirio avviene nel perdono (cf. mons. Romero e frère Christian). Il movente che spinge il martire è sempre la sequela del suo Signore, colui "che ha dato la vita per noi" e che dona al suo discepolo la forza, per mezzo dello Spirito, di "seguire la stessa strada", come dice il Concilio a proposito della missione (LG 8, AG 5).

La chiesa povera e dei poveri

Il martirio è la forma più espressiva della testimonianza delle chiese che hanno fatto la scelta dei poveri: sono le chiese che non solo si danno da fare "per i poveri" cosa che potrebbe anche non toccare la propria vita ma che si fanno "esse stesse povere" e sono "dei poveri": identificate con i poveri e al seguito di Gesù povero. Come si espresse recentemente la chiesa di Riobamba, Ecuador, sulla scia del suo grande vescovo, mons. Proaño (cf MO, giugno 98): "È assolutamente necessario che la nostra chiesa sia capace di vedere tutta la realtà nellottica dei poveri e da lì proiettare la nostra prassi pastorale".
È in questo modo che molte chiese del Sud del mondo, senza accordi con nessuno tantomeno con i potenti, senza sostegni che non siano la fede nellunico Signore, "indicano" chi è il Dio che Gesù ci ha mostrato, il Padre e difensore dei poveri, colui che si schiera sempre dalla parte di chi è colpito dai ladroni, solidale con lui nel suo cammino di liberazione.

La missione nella debolezza

La testimonianza della "missione nella debolezza" è comune a tutte le chiese che vivono in paesi musulmani, dove i cristiani sono una piccola minoranza, spesso anche osteggiata. Ma sta diventando sempre più estesa: basti pensare ai missionari che, in zone sempre più estese, sono costretti a vivere una vita di estrema precarietà, senza nessuna sicurezza, spesso fuggendo dai villaggi nella foresta insieme alla gente, oppure continuamente controllati, con divieti di spostamenti, sempre in bilico di essere espulsi, esposti ad ogni follia o umore dei militari, ribelli o delluomo forte di turno.
Le chiese che maggiormente hanno riflettuto a queste situazioni di minoranza, di spogliazione e di debolezza sono probabilmente le chiese del Maghreb, specialmente quella algerina. Non hanno cercato la loro situazione e non hanno subito la privazione di ogni appoggio umano, ma hanno avuto la grazia di accogliere questa debolezza come un dono di Dio, scoprendovi una chiamata a profondità insospettate per la loro presenza missionaria e per la stessa concezione della chiesa: "Noi non siamo una chiesa per i cristiani afferma mons. Teissier, arcivescovo di Algeri ma una chiesa di cristiani che vogliono vivere una relazione evangelica con i maghrebini musulmani& La nostra missione è di essere un segno di Vangelo nelle nostre relazioni con ogni musulmano e con tutta la società".
P. Garau, un prete tunisino nato da genitori sardi, racconta lespressione dellImam di Gafsa, con cui aveva stretto una profonda amicizia: "Io so perché tu e le sorelle (le suore) siete venuti a Gafsa: volete manifestare lamore di Dio vivendo secondo il Vangelo".
Difficilmente si può esprimere la natura e il modo stesso della missione con più profondità di queste espressioni di mons. Teissier e di p. Garau. Non sono da meno le parole che un vescovo del Congo, mons. Nkiere Kena, scrisse in una significativa "lettera pastorale" sotto lincalzare delle truppe di Kabila nel dicembre 96: "Fratelli e sorelle, è questa la Parola di Dio per il nostro mondo lacerato, per questo paese che sta andando verso una guerra fratricida. Il Signore ci indica la strada da seguire, quella che lui ha percorso: la strada di una solidarietà effettiva con i più deboli, con gli ultimi di questo mondo. Presso la salma di questa donna (che avevano accolto, ma che dopo pochi giorni era morta, ndr) che era per me Parola del Signore, ho rinnovato questo proposito: nessuno e niente al mondo potrà allontanarmi da questa nuova convivialità che ci lega al Signore e a tutti i suoi fratelli e sorelle. Questa fraternità in lui, la proclamerò a tempo opportuno e inopportuno, costi quel che costi, anche se dovessi essere rigettato, incompreso, perseguitato. È nella fraternità che risiede per tutti noi la nostra forza, al di là di ogni spirito di vendetta, di scoraggiamento, dimpotenza" (cf MO novembre 97).

Lo spirito del dialogo

Cè un legame stretto tra la debolezza e lo spirito che muove al dialogo. Sono profondità di solito non afferrate da chi parla del dialogo solo come unattività, non come modo di essere di fronte allaltro. A dettare il nostro atteggiamento nel dialogo dicono i missionari che lo vivono è la nostra debolezza davanti a Dio. È lessere davanti allaltro come lo siamo davanti a Lui: poveri, senza maschere e senza furbizie.
P. Christian Chessel, un missionario ucciso in Algeria due giorni dopo il Natale del 95, così si esprime: "Il prendere atto della nostra impotenza e il prendere coscienza della povertà del nostro essere davanti a Dio, non può non essere che un appello pressante a creare con gli altri delle relazioni di non-potenza; se ho imparato a riconoscere la mia debolezza, posso non solo accettare quella degli altri, ma vederla come un appello a rivestirmi di essa, a farla mia, ad imitazione di Cristo".
"La verità del dialogo nella sua dimensione evangelica commenta p. Claude Raoult si misura nelle situazioni di non-potenza, di spogliazione, di debolezza. Forse non cè vero dialogo che quando ciascuno si trova di fronte alla propria precarietà e vulnerabilità. Le conseguenze di questo spirito sono notevoli per la missione: ci invita a rinunciare ad ogni forma di pretesa nellincontro con laltro e a cambiare modo di vederlo, non solo perché avrò conosciuto la vanità di ogni forza che non sia quella dello Spirito, ma anche perché vedrò nella sua debolezza un appello più grande dellamore. Non potrò temere lincontro con laltro per quanto forte possa essere, ma andrò verso di lui nella forza della debolezza, appoggiandomi in Dio solo" (MO, ottobre 96).
È interessante notare che a Bellaria, dove un intero ambito è stato dedicato al dialogo, con 9 laboratori per i diversi "cerchi", in quello con i non credenti si è guardato innanzitutto "dentro" le comunità cristiane, insistendo che il dialogo sia considerato come una dimensione fondamentale della formazione e che i cristiani stiano nella società multireligiosa senza privilegi. Come a dire: è il modo di essere delle nostre comunità e dei cristiani che è interpellato.

LE INDICAZIONI

Le testimonianze "forti" che ho richiamato sono il retroterra della maggior parte dei partecipanti al Convegno, per esperienza personale o per conoscenza diretta. Esse pongono interrogativi alle nostre comunità, ma anche delle piste su cui incamminarci. Provo a richiamarne qualcuna:

1. Occorre creare un più intenso, abituale, scambio tra i missionari ad gentes e le nostre parrocchie.

È lodevole lesempio delle parrocchie che leggono, alla Messa domenicale, le lettere dei loro missionari. Sono spesso momenti di fede e portatori di fiducia per la comunità: gli Atti degli apostoli fioriscono anche oggi. A Bellaria è stato richiamato che limpegno riguarda anche i missionari stessi, chiamati a comunicare maggiormente, in particolare con le proprie parrocchie di origine, offrendo una riflessione sulla loro esperienza e parlando non solo di cemento e di chiodi ma soprattutto degli atteggiamenti e delle motivazioni di fondo della loro vita, per cui sono partiti e per cui "rimangono". Era proprio in una di queste lettere alla propria parrocchia, che p. Ottorino Maule ucciso dai militari in Burundi il 30 settembre 95 raccontava la risposta data ad un ragazzo che gli aveva chiesto "è vero che ve ne andate?": "Noi abbiamo deciso di rimanere". E continuava: "Non è facile elencare i motivi che giustificano la decisione di quasi tutti i missionari di restare sul posto nonostante i pericoli. Viviamo concretamente e giorno dopo giorno quella comunione di vita e di destino con i fratelli ai quali siamo inviati, che fa parte della nostra vocazione missionaria: alleviare le sofferenze, distribuire aiuti, infondere speranza, dire che è ancora possibile la riconciliazione, il perdono, il vivere assieme".

2. Occorre entrare più decisamente nella mentalità e negli atteggiamenti richiesti dal pluralismo religioso e culturale e dal fatto di non essere più in un regime di cristianità, ma un cristianesimo di minoranza.

Non solo va bandito ogni senso di arroganza e di pretese egemoniche, lannuncio scenografico, il bisogno di contarsi tutte espressioni ricorrenti nei Laboratori di Bellaria ma vanno ricercati gli atteggiamenti evangelici: "Il 1° atteggiamento missionario è quello di amare le persone e i gruppi umani a cui si è inviati -richiamava mons. Zago con la loro storia e la loro cultura, con i loro valori e anche con i loro difetti& Bisogna accettare la società pluralista, composta di gruppi con visioni diverse; bisogna accettare i giovani con la loro cultura, gli immigrati, ecc".
Queste sono ancora a livello di "premesse" per una vera evangelizzazione: senza di esse questa rischia di essere unoperazione puramente mondana, sterile perché fatta da una comunità che si dice cristiana, ma che in realtà non è ancora, se non in parte, né comunità né cristiana.

3. È anche per noi altamente indicativa la scelta della chiesa dellAlgeria: puntare tutto sulle relazioni (a livello personale, familiare, sociale), sulla qualità "evangelica" di queste relazioni: apertura allaltro, accoglienza, condivisione, servizio, gratuità, dialogo fraterno, amicizia, perdono anche unilaterale, magnanimità, saper perdere per ritrovarsi, collaborazione per alleviare sofferenze, per costruire una città di pace e fraternità&
Non è semplice, è grazia dello Spirito, è frutto anche di un lungo tirocinio: "Nel Maghreb la chiesa sta imparando a diventare aperta alla relazione con laltro: essa può contare solo sullaccoglienza che riceve dallaltro& Avvertiamo così il senso della nostra vocazione, che è di essere qui il popolo delle Beatitudini. Il nostro piccolo numero diventa allora un vantaggio: ci permette di scoprire, attorno a noi, la presenza di tutti gli uomini e di tutte le donne delle Beatitudini" (mons. Teissier).
È una testimonianza che non è riservata a qualcuno o solo alle grandi occasioni: è il Vangelo vissuto "nellumano" di ogni giorno. La qualità della nostra vita dipende dalla qualità umana ed evangelica delle nostre relazioni: a ben vedere non cè un "altrove" in cui siamo chiamati a vivere il Vangelo.

4. Ci siamo già inoltrati nel problema di fondo: come essere missionari oggi? come evangelizzare?

A Bellaria è emersa la sottolineatura, del resto già nettamente presente nella Evangelii Nuntiandi: "La Buona Novella deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza"& "È un elemento essenziale, generalmente il primo, nella evangelizzazione" (n 21). "Per la chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio in una comunione che nulla deve interrompere, ma ugualmente donata al prossimo con uno zelo senza limiti, è il primo mezzo di evangelizzazione& Dunque, è innanzitutto mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la chiesa evangelizzerà, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo&" (n 41).
"Levangelizzazione ai non cristiani sotto forma di predicazione verbale diretta è oggi quasi impossibile, anche perché non ci sono luoghi di ascolto che non siano quelli ecclesiali, ma questi non sono frequentati dai non cristiani& Appare quindi con evidenza che levangelizzazione oggi avviene sempre più nella forma della testimonianza cellulare. Trasmettere la propria esperienza di fede attraverso lindispensabile contatto personale è il modo più fecondo di consegnare lEvangelo allaltro& La fede è questione di relazione, non lo si dimentichi" (Enzo Bianchi, Come evangelizzare oggi, Ed. Qîqajôn, Bose).
Su questa rivista siamo ritornati spesso su queste convinzioni, parlando della necessità di una nuova autocoscienza di chiesa per una nuova fase missionaria delle nostre chiese: "Lintenzione di Gesù era di fare della cerchia dei suoi discepoli& un nucleo, attorno a lui, che mostrasse con i suoi comportamenti cosa vuol dire accogliere la misericordia del Padre, essere guidati dai suoi insegnamenti ed essere mossi dal suo Spirito: e così attraesse& con lo stile della propria vita" (MO, maggio 95). Citando il biblista G. Lohfink, abbiamo parlato della chiesa come inizio di società che comincia a vivere in modo diverso, "alternativo rispetto al mondo ambiente, reso possibile grazie alla forza dello Spirito: gli altri, in Israele e poi i popoli pagani, saranno attratti dal fascino dello stile di vita di questo nucleo di discepoli" (MO agosto 95).
Il tema della comunità alternativa è stato recentemente ripreso, con qualche giusta precisazione, anche dal card. Martini in Ripartiamo da Dio (pagg 32-36). Mons. Corti nelle conclusioni di Bellaria ha parlato della missione per contagio dei primi cristiani e nei Laboratori sono state fatte richieste di contenuti e di stili di vita particolarmente importanti per le nostre parrocchie. Avremo modo di ritornarci in seguito.
Qui ci preme ritornare su uninsistenza, che ci sembra troppo trascurata: la chiesa (a partire dalla famiglia cristiana, piccola chiesa, e poi ogni comunità e ogni parrocchia) è chiamata a lavorare a trasformare il mondo perché sia "secondo Dio"; ma è unillusione ritenere che la via della chiesa per raggiungere questo obiettivo sia solo la "predicazione dei valori evangelici", oppure la "denuncia": queste sono importanti e vanno fatte, ma il compito essenziale e primo della chiesa, il motivo per cui Gesù lha voluta è di essere lei stessa, nel suo modo di vivere e nei suoi ordinamenti sociali, il luogo in cui il Signore è seguito e i suoi criteri affermati e resi manifesti.

5. Tutto quanto abbiamo finora richiamato porta ad unultima indicazione proveniente da Bellaria, forse la più importante: la missione chiede alla pastorale delle nostre parrocchie di lasciare i fronzoli e di andare allessenziale.

I missionari che ritornano in Italia dopo anni di missione ad gentes hanno la netta impressione che nel nostro paese sia quasi totalmente assente il "primo annuncio" del Vangelo. Cioè si dà per scontato che sia avvenuto un fatto che, a volte nelle stesse comunità cristiane, non si è invece mai verificato, lincontro personale tra Cristo e le persone concrete: incontro che può avvenire solo quando uno percepisce la Sua iniziativa, la Sua auto-offerta libera e gratuita (è la novità cristiana!) e la Sua proposta concreta, personale: laccetti? vuoi seguirmi? vuoi coinvolgere la tua vita con la mia? Non solo, ma quando questa persona dà il proprio assenso: sì, accetto, con timore perché mi sento debole, ma con fiducia e con gioia. Se non è scoccata questa "scintilla" come avviene per due fidanzati che si riconoscono "fatti luno per laltro" non serve a niente moltiplicare le catechesi, le morali e le sollecitazioni alla missione: manca il punto di partenza, da cui tutto deriva.
Limpressione dei missionari è in buona compagnia. Afferma mons. Joseph Doré, nuovo arcivescovo di Strasburgo: "Non contesto limportanza di presentazioni generali della fede, come i catechismi recentemente pubblicati, né la necessità di interventi in materia di morale. Ma mi sembra che possiamo dedicarci a tutto questo solo in un secondo tempo, dopo esserci cioè preoccupati che il primo annuncio della fede, il kérygma abbia raggiunto i nostri cristiani. Non oppongo la fede di conoscenza alla fede di conversione. Ma ho limpressione che siamo lontani da una verifica costante della fede dei nostri cristiani; che anche là dove essa ci sia non determini necessariamente il processo della conversione; che convenga quindi richiamare alla conversione annunciando nuovamente lEvangelo, il cuore della fede, che la suscita: convertitevi e credete allEvangelo. In questo senso penso di poter affermare che oggi il lavoro dellevangelizzazione debba essere compiuto in primo luogo per e in mezzo ai cristiani stessi, e aggiungerei inoltre che oggi, per noi chiese, qui cè forse unurgenza" (Levangelizzazione nella società attuale, Ed. Qîqajôn, Bose).
Gli fa eco Enzo Bianchi (op. cit. pag. 20): "Sono convinto che tra i destinatari dellevangelizzazione occorre mettere i cristiani stessi: questi battezzati che praticano alcuni segni cristiani abbisognano essi stessi di evangelizzazione, perché spesso la loro conoscenza non è neppure a misura della loro pratica liturgica o della loro vita ecclesiale& Se e quando dei cristiani non sanno gioire dellevangelo ricevuto, non crescono nella conoscenza di Cristo, non arrivano a desiderare che altri si rallegrino di essere cristiani, allora questi devono essere considerati come non sufficientemente evangelizzati e devono essere evangelizzati con urgenza".
Possiamo concludere con le parole del vescovo Walter Kasper, riportate nel testo di E. Bianchi: "La nuova evangelizzazione è prima di tutto e soprattutto un impegno spirituale. È perciò fondamentale come noi stessi ci lasciamo interpellare in modo sempre nuovo dallEvangelo; che noi stessi viviamo più decisamente e con maggior gioia secondo lo spirito dellEvangelo. Se siamo sinceri, dobbiamo riconoscere che siamo noi stessi spesso di ostacolo allEvangelo e alla sua diffusione. Senza la nostra conversione personale, tutte le riforme& vanno a cadere e finiscono in un vuoto attivismo. Senza lascolto della Parola e della volontà di Dio, senza lo spirito di adorazione e senza la preghiera continua, non ci sarà rinnovamento della chiesa né nuova evangelizzazione dellEuropa".

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